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L’ultimo saluto al “Meraviglioso” Marvin Hagler

Le punte più alte di visualizzazioni sul web dei suoi entusiasmanti match accompagnano la sua leggenda: quattro milioni di visualizzazioni per Hagler-Hearns; quasi tre per Hagler-Duran; oltre due milioni e mezzo di clic per Hagler-Leonard. Numeri da capogiro per “Marvelous” Marvin Hagler che ricordiamo con il tributo d’affetto che si deve ai grandi pugili. Hagler è scomparso all’età di 66 anni. “Il meraviglioso” della meravigliosa categoria dei pesi medi è uscito improvvisamente dalle nostre vite. Per quasi un decennio, gli anni Ottanta, sua è stata la corona di re dei pesi, quella che dal secondo Dopoguerra fu di Rocky Graziano, Jake La Motta, Sugar Ray, Robinson, Marcel Cerdan, Emile Griffith, Nino Benvenuti, Carlos Monzon, in un’epoca di combattenti di razza, di picchiatori impressionanti, di talenti autentici. Contro ognuno di essi, Hagler seppe offrire sempre il meglio di se stesso con una boxe a geometria variabile, verrebbe da scrivere, che sapeva scegliere i colpi e la tattica migliori sulle caratteristiche dell’avversario. Ma non solo: seppe trasformare la sua boxe in una dimensione epica. Epico fu lo scontro che l’oppose il 15 aprile del 1985 a Thomas Hearns, un pugile che già nel nickname spargeva terrore: era conosciuto come “il Cobra”. Hearns era spropositatamente alto, 1.85, per essere un peso welter, la sua categoria d’esordio. E continuò ad esserlo nei medi, alto, magro e ossuto, braccia lunghe, tra le sedici corde danzava con agilità ferina e assassina in attesa di piazzare il colpo letale. Nel corso della sua carriera sarebbe salito sul tetto più alto del mondo in cinque categorie: welter, superwelter, medi, mediomassimi e supermedi. Ma sul ring del Caesars Palace di Las Vegas, quella sera il Cobra si trovò dinanzi al campione del mondo, ad un pugile per nulla disponibile a farsi ipnotizzare. Fu la battaglia delle due H che mantenne fede alle premesse della vigilia. Il battage pubblicitario definì il match “the war”, la guerra. E lo fu per intensità e drammaticità. Tutto in tre riprese, in un concentrato di violenza che raramente si è visto nella storia del pugilato. Neppure Jack London lo avrebbe potuto immaginare, né Ernest Hemingway lo avrebbe potuto scrivere, tantomeno John Dos Passos metterlo in rima. Ai posteri lo lasciarono Hagler e Hearns che scaricarono il meglio del loro repertorio, senza mai accendere l’odio dell’uno negli occhi dell’altro. Non c’era bisogno di odio per far scattare ganci, montanti, jab pochi, soltanto perché i corpo a corpo furono estenuanti. Alla fine, il gancio destro di “Marvelous” frantumò la resistenza di Hearns, altri due montanti ne segnarono la resa. Lo sguardo metafisico del Cobra, che qualcuno disse allucinato, fuori dalla realtà, spiegò al pianeta della boxe chi era il più forte. Marvin Hagler lo era da cinque anni, dall’incontro con il britannico Alan Minter, dopo aver subito nel 1979 un controverso verdetto di parità contro l’allora campione italo-americano Vito Antuofermo. A Londra, il 27 settembre 1980, era salito sul ring da sfidante di un pugile, appunto Minter, che aveva distrutto il coraggioso Angelo Jacopucci, la sera del 19 luglio 1978, a Bellaria. Poche ore dopo il pugile italiano, sconfitto per k.o. alla 12a ripresa, sarebbe entrato in coma per morire il 22 luglio, senza aver ripreso conoscenza. Ma alla Wembley Arena, nulla di tutto ciò passò nella mente di Hagler votato ad un solo obiettivo: indossare la cintura di campione del mondo. Che Minter non avrebbe avuto scampo, lo si vide fin dai primi minuti del match: una ferita al sopracciglio fu l’anticamera che tingeva di rosso sangue un epilogo cruento. Minter finì fuori combattimento al terzo round. E mesi dopo, si comprese che quella sera era sceso dal ring un pugile non soltanto sconfitto, ma diverso e fragile da quello che era salito. Londra segnò l’inizio della dittatura di Hagler nei pesi medi. Nel 1982, il 30 ottobre, l’organizzatore Rodolfo Sabbatini lo portò in Italia, al Teatro Ariston di Sanremo, nell’incontro di rivincita con il venezuelano Fulgencio Obelmeijas. Hagler, che arrivò accompagnato dalla prima moglie Bertha, liquidò la pratica in cinque riprese, quasi si trattasse di un impegno secondario. E lo era, se paragonato agli avversari successivi, alla “crema” del pugilato mondiale, da “Mani di pietra” Roberto Duran, all’argentino Juan Domingo Roldan, a Hearns, all’ugandese Mugabi detto “la bestia”, per chiudere la sua parabola contro il principe del ring, l’impareggiabile Sugar Ray Leonard, l’unico pugile di cui forse subì il carisma fuori e dentro il ring. Il 6 aprile del 1987, l’atteso match, vissuto con quel pathos universale che soltanto i dollari americani sanno produrre, vide prevalere di una bava di vento Leonard. Verdetto controverso imposto dal business della boxe che reclamava un nuovo re dei pesi medi. Ma a Marvelous quella logica apparve per nulla meravigliosa. Sdegnato, abbandonò la boxe per il cinema. Lì, almeno, i trucchi erano chiari.

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