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L’ultima punizione a “foglia morta”

Se ne va con Mariolino Corso, classe 1941, da San Michele Extra in provincia di Verona, un altro pezzo di storia della mitica Inter degli anni Sessanta, quella del “mago” Helenio Herrera e del presidente Angelo Moratti, uno dei tanti self made man che l’Italia seppe sfornare dal secondo dopoguerra, cioè dalle rovine. Se ne è andato nell’ultimo giorno di primavera, alla vigilia del solstizio d’estate, come se volesse davvero andare dall’altra parte del mondo quella maglia numero 11 che per i tifosi nerazzurri e non solo, era “il piede sinistro di Dio”, l’incantatore della palla che calciava le punizioni con una balistica ipnotizzante, se non paralizzante per i portieri: erano le “punizioni a foglia morta”, in cui la parabola della sfera di cuoio prendeva una discesa improvvisa, come devitalizzata, abbandonata a se stessa. In realtà, precipitava verso l’unico destino che le aveva assegnato il suo artefice: la rete avversaria. Mario Corso era uno, e sarebbe rimasto a vita, della “famiglia” interista insieme a Facchetti, Suarez, Mazzola, l’Inter calcistica capace di vincere (e perderne, anche all’ultimo miglio) scudetti, di conquistare Coppe dei Campioni e Coppe Intercontinentali. Era l’Inter della Grande Milano, non ancora da bere, semplicemente da vivere, che assicurava lavoro, benessere e tante speranze, alcune deluse o rimaste a metà, tante realizzate. Quella Milano che aveva una “mala” quasi romantica, sublimata dalla voce della splendida Ornella Vanoni, ispirata dal suo mentore Giorgio Strehler, e che Luchino Visconti raccontò sulle tracce di Giovanni Testori in “Rocco e i suoi fratelli”, storia di un’immigrazione di grande dignità, ma dai contorni introspettivi contorti e oscuri, che riflettevano le stesse ombre della grande città in pieno “boom” economico. Era la Milano dei derby del panettone tra “Motta” e “Alemagna” e della stracittadina a San Siro che si nutriva anche di innumerevoli sfide nella sfida: a cominciare dagli allenatori, l’argentino Helenio Herrera e il triestino Nereo Rocco, il “Paron”, personaggi sideralmente tanto distanti quanto all’opposto nella filosofia di vita e calcistica. E in campo con la sportiva rivalità che le bandiere Sandro Mazzola e Gianni Rivera esaltavano. Rivalità che sarebbe finita in diatriba con la maglia azzurra della Nazionale, ai campionato mondiali del 1970. Ma in quella storia, Mariolino Corso faceva storia a sé, caracollando in campo, con un movimento robusto, alimentato da polpacci e caviglie potenti – comunque inimmaginabile nel calcio di oggi – che spiegava nel lusso che si concedeva, quasi con vezzo intellettuale, quanto il verbo correre lo infastidisse o fosse una marginalità rispetto ai suoi dribbling, ai suoi lanci improvvisi, taglienti e vincenti per mandare in goal gli attaccanti. Un talento, magari incompreso, ma che ammaliava, che i numeri hanno restituito in tutta la sua grandezza: oltre 500 partite in serie A, un centinaio di reti. L’Inter era la taglia giusta e unica per Mario Corso quanto Corso aveva dato il taglio giusto all’Inter. Non così in Nazionale. La maglia azzurra lo vide in campo appena 23 volte, segnare quattro volte, ma non fu mai incluso nelle finali di competizioni internazionali. I selezionatori azzurri lo misero sempre al bando con motivazioni inverosimili che nascondevano una verità molto più prosaica: non sapevano come utilizzarlo. Era giudicato un giocatore “atipico”, come se il talento fosse “normotipo”. Lasciato a casa per i disastrosi mondiali in Cile, fu recuperato con una discreta continuità dal nuovo Ct. Edmondo Fabbri detto “Topolino” che nel 1964 contro la Svizzera a Losanna lo schierò numero 11 in un attacco tutto “made” in Milano: Lodetti, Mazzola, Milani, Rivera e Corso. Fu un 3 a 1 per l’Italia con reti tutte della premiata ditta milanese, Mazzola, Corso e Rivera. Da quella partita e per altre 6 con lui in campo, l’Italia non perse mai, ma neppure quel filotto a tutto tondo fu sufficiente per aggregarlo alla Nazionale ai mondiali d’Inghilterra, quelli della magra con la Corea del Nord. A subire il suo fascino calcistico furono le Ladies dei presidenti nerazzurri da Erminia Moratti a Renata Fraizzoli, moglie di Ivanoe Fraizzoli, che rilevò l’Inter nel 1968. Entrambe le “presidentesse” elessero Corso tra gli “intoccabili”. Si è sempre scritto che fosse il “cocco”. Leggende,esagerazioni? Forse. Di certo, non si può negare loro un gusto estetico del calcio che si proiettava anche nella vita, a differenza di oggi.

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