L’ultima alba di Gerda Taro, "la ragazza con la Leica"
di Marco Travaglini
Nel cimitero di Père-Lachaise, il grande cimetière de l'Est sulla collina che sormonta la rive droite e il Boulevard de Ménilmontant, nel ventesimo arrondissement di Parigi, è sepolta, tra i tanti illustri defunti, Gerda Taro, di cui tra qualche giorno si ricorderà l'87° della sua morte. La sua tomba è nella 97° divisione, non lontana da quella di Edith Piaf e dal "muro dei Federati", un luogo-simbolo dove, il 28 maggio del 1871, vennero fucilati dalle truppe di Thiers gli ultimi 147 comunardi sopravvissuti alla semaine sanglante, la settimana di sangue che pose fine al sogno della Comune di Parigi. Un angolo riparato dagli alberi, senza dubbio il luogo ideale per custodire le spoglie mortali della prima giornalista di guerra a cadere sul campo durante lo svolgimento della sua professione, entrata nella storia della fotografia per i suoi reportage realizzati durante la Guerra di Spagna.
Gerda Taro, il cui vero nome era Gerta Pohorylle, nacque nel 1910 a Stoccarda e, nonostante le sue origini borghesi, entrò giovanissima a far parte di movimenti rivoluzionari di sinistra. Le idee politiche, la militanza e la sua origine ebraica, con l’avvento del nazismo in Germania, la costrinsero a rifugiarsi a Parigi. Nella ville lumière degli anni folli, magistralmente descritti da Ernst Hemingway in Festa mobile, la personalità della Taro travolge le vite di amici e amanti con un’energia inesauribile. E’ a Parigi che Gerta Pohorylle conobbe André Friedmann, ebreo comunista ungherese e fotografo, che le insegnò le tecniche del mestiere. Formarono una coppia e iniziarono a lavorare insieme.
La storia d'amore con Robert Capa
L’atmosfera magica della città e l’estro creativo e vulcanico della giovane la portarono a creare per il compagno una figura del tutto nuova. Nacque così il mito di Robert Capa, un fantomatico fotoreporter americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Con quello pseudonimo il mondo intero conoscerà Friedman e il fotografo finirà per sostituirlo al suo vero nome, conservandolo per tutta la vita. Lei stessa cambiò il proprio nome in Gerda Taro.
Nel 1936 entrambi decisero di seguire sul campo gli sviluppi della guerra civile spagnola. Una scelta importante che li coinvolgerà e segnerà così profondamente da farli diventare alcuni tra i più importanti testimoni del conflitto, seguendolo e raccontandolo al mondo attraverso scatti sensazionali e numerosi reportage pubblicati su periodici come Regards e Vu, la prima vera rivista di fotogiornalismo. Gerda con incredibile coraggio e sprezzo per il pericolo, rischiò più volte la vita per immortalare, attraverso le immagini, le fasi del conflitto. Helena Janeczek ne La ragazza con la Leica (Premio Strega, Bagutta e Campiello nel 2018) ci regala un ritratto incisivo e significativo della Taro, raccontando che si “trascinava dietro la fotocamera, la cinepresa, il cavalletto, per chilometri e chilometri. Ted Allan ha raccontato che con le ultime parole ha chiesto se i suoi rullini erano intatti. Scattava a raffica in mezzo al delirio, la piccola Leica sopra la testa, come se la proteggesse dai bombardieri”.
Gerda fotografava prevalentemente con una Rolleiflex formato 6x6, mentre Robert preferiva la Leica. Poi anche lei iniziò ad utilizzare la piccola fotocamera. Nello stile di Gerda predominano gli individui, i suoi scatti mettevano a fuoco i protagonisti della guerra, le vittime, i combattenti, le donne e i bambini. Immagini forti che descrissero, attraverso l’obiettivo, l’evento storico che anticipò come un tragico prologo la Seconda guerra mondiale. Le sue foto fatto il pari con la sua vita tumultuosa, simile ad una corsa a perdifiato, segnata da passioni forti, un’incredibile vitalità e un desiderio di affermazione ed emancipazione che storicamente le donne avrebbero raggiunto solo molto più tardi. Quella vita venne spezzata dai cingoli di un carro armato che la travolse proprio mentre tornava dalla battaglia di Brunete, dove aveva realizzato il suo servizio più importante, che pubblicò postumo la rivista Regards.
La morte nella guerra civile spagnola
Sotto quel carro armato si spensero i sogni e l’entusiasmo di questa ragazza di ventisei anni, negandole le foto che in futuro avrebbe potuto regalare al mondo. Trasportata a Madrid, la Taro restò cosciente per alcune ore, in tempo per vedere un’ultima alba, quella del 26 luglio 1937. Il suo corpo fu riportato a Parigi dove, accompagnato da un corteo funebre di duecentomila persone, venne tumulato al cimitero del Père Lachaise. Il suo elogio funebre fu scritto e letto da Pablo Neruda e Louis Aragon. Robert Capa, distrutto dalla morte della sua compagna di vita e d’arte, un anno dopo la scomparsa di Gerda, pubblicò in sua memoria Death in the Making, riunendo molte delle foto scattate insieme.
La vita di Capa, da quel momento, sembrò procedere in uno strano, inquietante e provocatorio gioco a rimpiattino con la morte che il fotografo sfidava, conflitto dopo conflitto, scattando immagini sconvolgenti e sempre fedeli al suo motto “se le foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino”. La morte gli diede scacco matto attraverso una mina antiuomo, nel 1954, durante la guerra in Indocina, mentre Capa cercava, ancora una volta, di regalare all’umanità un’altra testimonianza dell’orrore dei conflitti bellici. Fedele fino alla fine all’idea che un fotoreporter, in fondo, non deve fare niente altro se non testimoniare la realtà e semplicemente “dare la notizia”.
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