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L'EDITORIALE DELLA DOMENICA. Dietro le ambiguità Usa avanza una nuova Olp

di Stefano Marengo


La morte che imperversa a Gaza sta mettendo in luce anche l’impotenza della potenza americana. Nel pomeriggio di ieri, 17 febbraio, dopo una lunga telefonata con Biden, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha platealmente respinto quelli che ha definito “diktat internazionali per una soluzione permanente con i palestinesi”. Inoltre, come si è già visto con i bombardamenti dei giorni scorsi, il primo ministro appare indifferente alle raccomandazioni di Washington per la tutela della popolazione civile ammassata a Rafah.

Gli Stati Uniti sono alle prese con un dilemma a cui non riescono a dare risposta. L’amministrazione USA, da una parte, sa bene che il vero teatro strategico globale è oggi l’oceano Pacifico e che proprio lì, nel confronto con la Cina, andrebbero concentrate le principali risorse economiche, militari e politiche. Dall’altra, tuttavia, gli Stati Uniti non riescono ad attuare il necessario disimpegno da altre aree geopolitiche, dove al contrario risultano sempre più coinvolti, con conseguente logoramento delle loro forze e della loro credibilità. La guerra in Ucraina ne è un esempio: i fallimenti della controffensiva di Kiev hanno seccamente smentito le previsioni USA, con la conseguenza che il conflitto oggi ristagna in una guerra di posizione che potrà essere risolta soltanto per via diplomatica, a tutto vantaggio della Russia del deprecato nemico Putin. In Medio Oriente, invece, emerge il carattere profondamente simbiotico della relazione USA-Israele.


Le pressioni delle lobby ebraiche

Da alcune settimane il presidente Biden e il Segretario di Stato Blinken, che più di tutto temono di essere trascinati in un conflitto regionale che segnerebbe la fine degli Stati Uniti come unica superpotenza mondiale, tentano di ricondurre a ragione il bellicismo israeliano. Di fronte alle alzate di spalle di Netanyahu, tuttavia, le intenzioni non si traducono in contromisure frenanti, anzi, Washington ha appena varato un pacchetto di aiuti militari a Israele di oltre 14 miliardi di dollari.

Diversi fattori pesano sull’atteggiamento americano. Tra questi persiste l’idea che Israele vada comunque mantenuto e supportato come avamposto occidentale nel cuore del mondo arabo e in una regione fondamentale per presenza di risorse naturali e controllo delle rotte mercantili. Gli USA inoltre subiscono la pressione delle lobby ebraiche interne, a partire dalla potentissima AIPAC, schierate compattamente a sostegno di Tel Aviv e capaci, se vogliono, di condizionare le elezioni presidenziali del prossimo novembre.

In questo quadro, nel concreto, difficilmente la Casa Bianca prenderà le distanze da Israele; all’opposto, continuerà di fatto a sostenerlo ponendo ben poche condizioni. Nemmeno il fatto che lo Stato ebraico debba rispondere di genocidio di fronte al tribunale dell’Aja sembra creare eccessivi imbarazzi a un’amministrazione americana che appare incapace di modificare l’inerzia degli eventi. Ciò è tanto più significativo perché, dopo oltre quattro mesi di raid devastante su Gaza, inizia seriamente a scricchiolare la compattezza dell’alleanza atlantica, con la Francia che manifesta l’intenzione di riconoscere formalmente lo stato di Palestina, e Spagna e Irlanda che valutano se e quali sanzioni adottare contro Israele.


Il mito della "Grande Israele"

All’altro capo dell’alleanza Tel Aviv-Washington, Netanyahu sa fin troppo bene che avrà consenso e potrà rimanere a capo dell’esecutivo fintanto che la guerra durerà. Quando le armi taceranno dovrà rispondere dell’impreparazione di governo, intelligence ed esercito di fronte all’attacco del 7 ottobre. Il trauma israeliano, infatti, non è circoscritto al lutto per chi quel giorno perse la vita; a livello politico, il risultato ottenuto da Hamas è stato quello di far collassare le capacità di deterrenza di Israele, mostrando che i sofisticatissimi sistemi di sicurezza di cui è dotato sono tutt’altro che inaggirabili. È con questa ferita profondissima che Israele si sta misurando, ed è per riaffermare il proprio implacabile primato nell’uso della forza che la reazione militare israeliana ha assunto sin dall’inizio, nelle dichiarazioni dei politici e nelle azioni sul campo, caratteri estremi. Non ci si può quindi stupire che Netanyahu e il suo governo, sostenuti da una porzione molto ampia dell’opinione pubblica interna, siano intenzionati non solo a proseguire il conflitto, ma ad esacerbarlo, come dimostrano in questi giorni i bombardamenti su Rafah.

In un senso ancora più preciso, i governanti di Tel Aviv, in particolare l’estrema destra di Ben-Gvir e Smotrich, sono decisi a giocarsi il tutto per tutto, sfruttando questa congiuntura per operare ulteriore pulizia etnica della popolazione palestinese e annettere nuova terra. A provarlo, se mai ce ne fosse bisogno, ci sono non soltanto i progetti espliciti di colonizzazione della Striscia di Gaza, ma anche l’aumento esponenziale delle uccisioni di palestinesi in Cisgiordania per mano dei coloni. Al fondo di tutto, in altri termini, c’è il disegno della destra sionista della “Grande Israele”, un disegno che, per essere realizzato, presuppone l’eliminazione fisica o la cacciata dei nativi.

Tra le ambiguità di Washington e l'aggressività israeliana si staglia, oggi come nei 75 anni che abbiamo alle spalle, la sorte tragica dei palestinesi. Nella devastazione di questi mesi – i numeri parlano oggi di oltre 30mila morti e 70mila feriti – si intravede però una piccola luce di speranza. Infatti, nonostante la censura sistematica adottata in Occidente da stampa e televisione, attraverso i nuovi media il mondo intero sta osservando l’efferatezza delle azioni militari e può constatare la portata della catastrofe di Gaza. È così che la questione palestinese, anestetizzata per vent’anni, è oggi tornata a essere centro dell’attenzione e oggetto di solidarietà dell’opinione pubblica globale. Un risultato non scontato e di importanza capitale, ma un risultato che deve adesso avere un seguito politico.


La speranza Marwan Barghuti

Per i palestinesi, oggi, l’obiettivo non può essere soltanto il raggiungimento del cessate il fuoco, ma occorre compiere passi concreti verso la liberazione dall’occupazione e dall’oppressione. A questo scopo appare inderogabile la necessità di fondare una nuova OLP aperta a tutte le sigle della resistenza, da quelle di ispirazione religiosa a quelle laiche. Si tratta di un passaggio indispensabile per definire una soggettività politica rappresentativa di tutti i palestinesi e capace, in un prossimo futuro, di sedersi ad un vero tavolo di trattativa; in via preliminare, comunque, la creazione di tale organizzazione è decisiva per sbarazzarsi di chi, come Abu Mazen e il suo circolo di potere, tra corruzione e collaborazionismo con gli occupanti, non riscuote più alcun consenso tra la popolazione.

A guidare questo nuovo soggetto dovrebbe essere una personalità riconosciuta e capace di operare una sintesi politica efficace tra le varie anime della resistenza. A voler individuare un nome, in via del tutto ipotetica, tale personalità potrebbe essere incarnata da Marwan Barghuti. Già comandante delle brigate di al-Fatah, Barghuti, spesso identificato come il “Mandela palestinese”, è stato il leader della Seconda Intifada e da ormai 22 anni è prigioniero politico nelle carceri israeliane. Il suo profilo è quello di un politico laico e secolare, e per questo alcuni potrebbero stupirsi che Hamas ne abbia chiesto la liberazione (per ora invano: Ben Gvir ha anzi disposto il trasferimento di Barghuti in isolamento). A non stupirsi sono invece coloro che sono consapevoli della complessità della situazione e conoscono il carattere per lo più pragmatico delle scelte di Hamas e delle altre formazioni palestinesi. Volendo azzardare un giudizio, se non una previsione, questa vicenda, letta in controluce, lascia intendere che la resistenza è irriducibile a semplici iniziative di lotta armata, ma si sta muovendo sulla strada della costruzione politica.

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