Italo Calabrò, il don Milani del Sud al servizio degli ultimi
- Laura Pompeo
- 30 nov 2024
- Tempo di lettura: 6 min
di Laura Pompeo

Nutriva la speranza del possibile e testimoniava la fiducia verso l’altro, don Italo Calabrò. Una figura centrale della lotta contro la cultura mafiosa in Calabria. Un prete della strada impegnato in attività sociali numerosissime e innovative. Don Italo Calabrò si distinse per il suo approccio concreto contro la ‘ndrangheta, intravedendo la necessità di un cambiamento dal basso per una riforma morale profonda e promuovendo l'educazione e la responsabilità civica come strumenti di resistenza. Creò una rete di supporto per i ragazzi a rischio, offrendo loro opportunità alternative alla criminalità attraverso l’istruzione, il lavoro e il coinvolgimento sociale. Praticava l’antimafia con azioni rispondenti ai bisogni reali della comunità, senza trascurare le cause della povertà e dell'emarginazione, che spesso alimentano la criminalità organizzata. Un testimone credente e credibile che dedicò la vita alla giustizia: era visionario, carismatico, umile e potente, con un fine umorismo. Era diretto, forte, senza mezzi termini nel condannare. Ma aveva una grande capacità di ascolto. Un sacerdote scomodo, anticonformista, educatore dei figli della classe operaia, che ha saputo incarnare la dimensione profetica della fede.
La Chiesa ha avviato il processo di beatificazione
Don Italo metteva in pericolo la sua stessa sicurezza accogliendo, nascondendo e salvando i giovani dalla ‘ndrangheta e collaborando attivamente con la giustizia. Morì il 16 giugno 1990, rapidamente, dopo che gli era stata diagnostica una grave malattia. Era prossimo, li avrebbe compiuti il 26 settembre, ai 65 anni. E sempre a settembre, lo scorso anno, la Chiesa ha avviato l’iter per il processo di beatificazione del parroco di Reggio Calabria, prete dei fragili e degli ultimi. Don Italo, puntando sulle forze sane, ha costruito una coscienza collettiva contro la cultura mafiosa. La sua eredità rimane un modello di integrazione tra carità, giustizia e promozione sociale, un impegno che continua a ispirare le nuove generazioni. Questa figura straordinaria è stata ricordata, una settimana fa, in un dibattito organizzato da Pietro Bucolia, che da ragazzo lo seguì per 5 anni, e il Lions Club Moncalieri Host, con protagonista Don Luigi Ciotti e altre testimonianze.

Don Italo guardava a Don Lorenzo Milani che, nell'Italia del Secondo dopoguerra, provò - fortemente osteggiato - a riscattare dall'analfabetismo i figli di contadini e operai: sacerdote militante, educatore appassionato, uomo di fede controcorrente, utopista, rivoluzionario, “disobbediente”. Non lavorava per la scuola delle eccellenze, non per la competizione, ma per la crescita di ciascuno. «Conoscere i ragazzi dei poveri e amare la politica è tutt'uno. Non si può amare creature segnate da leggi ingiuste e non volere leggi migliori. Non c'è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali», scriveva nel 1967 Don Milani nel suo testo più famoso, “Lettera a una professoressa”. Don Italo fu il “Don Milani” del Sud: accoglieva i bambini come “interi”, lavorava sulla cooperazione tra studenti e sull’inclusione.
Inflessibile contro le 'ndrine
Parroco di San Giovanni di Sambatello (piccola frazione di Reggio Calabria alle falde dell’Aspromonte, un “fazzoletto di terra in cui si riflette il mondo”, come lui lo definiva), fu pioniere nell’affrontare a viso aperto la ’ndrangheta: prima di Don Italo nessuno aveva pronunciato in chiesa questa parola. Sapeva che la cultura mafiosa ha radici profonde e non è semplice da eliminare. Per questo motivo parlava principalmente ai ragazzi. Su Rai Uno, intervistato da Enzo Biagi, don Italo disse: “Con le persone della mia generazione ormai c’è da sperare solo in un miracolo divino. Il vero lavoro da fare è nelle giovani generazioni, per creare una cultura e una mentalità del tutto nuove”.
Era certo che i giovani fossero contro il fenomeno mafioso, ma che, sentendosi indifesi e soli, non sapessero come aggredirlo, viste le scarse forme di solidarietà e di aggregazione nella società civile ma pure nelle chiese locali. Parlava molto anche alle madri che, per quanto amassero i propri figli, di rado riuscivano a svincolarsi dai codici mafiosi.
Così don Luigi Ciotti, che per molti in Calabria è un discepolo di don Italo, ha raccontato di averlo incontrato per la prima volta negli anni ‘70: don Italo lavorava instancabilmente con i ragazzi, quelli del suo “Panella” innanzitutto, l’Istituto tecnico dove insegnò per tanti anni. Li aiutò anche nel ‘68 quando occuparono la scuola: portava loro cibo e coperte, li accompagnava durante le manifestazioni, li invitava a conoscere per diventare persone responsabili. Ricordava loro che conoscenza è responsabilità, e che responsabilità è conoscenza. Li sollecitava verso un impegno concreto. Don Ciotti, in un discorso lungo e ispirato, ha ricordato che i poveri sono i nostri padroni, che i poveri sono Cristo. Come dice Papa Francesco sui migranti: “Sono i poveri a indicarci l’orizzonte della vita”.
Ci sono tante forme di povertà, ma la peggiore è l’anossia esistenziale. Don Ciotti ha ribadito che la società oggi si preoccupa dei giovani, ma non se ne occupa. E che non basta commuoversi, occorre muoversi, tutti. Occorre che le emozioni diventino sentimenti e, quindi, azione: non basta tagliare la malerba in superficie, ma bisogna estirpare il male – sociale, educativo, culturale – alla radice.
"Dobbiamo essere educatori"
Don Italo era risoluto nella condanna ma intuiva la necessità di una strategia sociale non violenta contro la mafia: “Dobbiamo essere educatori – insisteva – insegnate ai vostri figli a perdonare, non a vendicarsi, dite che vince chi è capace di stendere la mano verso chi l’ha offeso, non chi la alza con il pugnale, con la pistola. Dite che il lavoro onesto rende poco, ma dà sicurezza, dà pace, dà tranquillità. Il lavoro disonesto, il traffico di armi, di droga, rende molto, si guadagna molto, ma senza pace, senza tranquillità e senza vita. Voi vedete la gente che prende questa strada che vita d’inferno fa: non hanno pace e non ne fanno avere agli altri. I ragazzi sono ancora da salvare, gli adolescenti possono essere ancora sottratti a questa maledetta voragine di vendetta, di violenza, di inimicizia, di contrasti”.
La vicinanza ai più vulnerabili fu la sua cifra: per restare accanto ai suoi assistiti e ai giovani che lo affiancavano nella sua opera, don Italo rinunciò alla nomina a vescovo. Nello stile evangelico del «nessuno escluso mai», don Italo ha appoggiato la battaglia sull’obiezione di coscienza e, dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia e la chiusura dei manicomi, ha accolto centinaia di persone. Disabili fisici e psichici, anziani abbandonati, ragazze madri, malati di ogni specie di malattia - compreso l’Aids, negli anni in cui della sindrome si sapeva poco -, giovani che il Tribunale dei minori gli affidava.
Cofondatore della Caritas italiana
Durante gli anni della contestazione sessantottina, coinvolgendo gli studenti, promosse forme innovative di assistenza dando vita al Centro comunitario Agape e alla Piccola Opera “Papa Giovanni”. Da lì fiorirono poi altre opere, in cui cercò sempre di coinvolgere le istituzioni: le Comunità d’accoglienza, le “case famiglia” (incoraggiando pure l’affidamento famigliare), i centri di riabilitazione, i gruppi di volontariato. Fu anche co-fondatore di Caritas italiana. Sempre con l’obiettivo di mettere la gente in condizione di camminare coi propri piedi: era per lui un imperativo etico, oltre che religioso.
Don Italo Calabrò fu tra i primi a individuare nella mancanza di opportunità e di lavoro (e, in tempi non sospetti, nei rischi del consumismo) una pericolosa concausa della mafia: la disoccupazione cronica porta alla frustrazione e spinge troppi a percorrere le strade dell’illegalità. Il suo miracolo sta nell’aver insegnato che ci sono alternative al sistema malavitoso e che ci sono mezzi anche laddove lo Stato latita.
Già negli anni ’60, don Italo intendeva la crescita civile come prioritaria. La scuola media unica era appena stata istituita (1962) e lui spingeva le famiglie a farla frequentare dai figli, perché fosse motore di cambiamento. Un cambiamento che si attua attraverso la cultura, per arrivare alla partecipazione, al coinvolgimento attivo nella vita sociale e politica. In questo senso favorì una vera rivoluzione culturale, in cui la cultura è alimento dell’uguaglianza e strumento per non essere facile preda di manipolazioni: per de-codificare l’humus mafioso, per il confronto, per il dialogo, per lo sviluppo del senso critico. Per sgretolare i falsi valori, sosteneva che i cosiddetti “uomini d’onore” sono esseri morti: né uomini, né d’onore.
Alla ricerca della verità
Suo scopo era stabilire una non violenta ma ferma opposizione alla mafia attraverso una mobilitazione di coscienze pubblica e partecipata: convinto che la mafia costituisse (come in effetti è) la più pesante ipoteca sul futuro della Calabria, una terra meravigliosa che regge le fondamenta della cultura europea, ma lacerata dallo strapotere criminale.
La mafia oggi è molto diversa da allora: notevolmente più forte e diffusa in tutti i continenti, grazie anche alla finanza e alle tecnologie; si camuffa financo da associazioni contro le mafie e si ammanta di parole come “legalità”, in ramificazioni pervasive: si è passati dal crimine organizzato mafioso al “crimine normalizzato”, come è evidente dal Rapporto annuale della Direzione Nazionale Antimafia.
Ma, nonostante ciò, il testamento spirituale di don Italo Calabrò resta vivo e ci illumina con la costante fiducia che esistono energie e potenzialità per sconfiggere quel sistema e che, come scrive San Tommaso, “Il bene di per sé è contagioso e tende a diffondersi”. Attraverso l’educazione, attraverso il lavoro e lo sviluppo economico, anche attraverso il rinnovamento della politica: diventando protagonisti della propria vita, ricercando la verità e non arrendendosi. Mai.
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