Israele, scoppia la rabbia contro Netanhyau
Guarda le foto e i video. "Il paese sta bruciando e Sara si sta tagliando i capelli", una frase che fa rima in ebraico, hanno scandito i manifestanti che hanno sorpreso ieri sera la moglie Sara del primo ministro israeliano Benjamin "Bibi" Netanyhau in un salone di parrucchiere a Tel Aviv. "Vergogna, vergogna", era l'urlo dominante a corona di settimane di proteste contro la legge sulla Corte Suprema che l'esecutivo destrorso, come viene definito dalle opposizioni, sta cercando di imporre in Israele. Si tratta di modifiche sul sistema di nomina dei giudici e dei consulenti legali dei ministeri che nella sostanza metterebbero il bavaglio alle iniziative dei magistrati.
Ma la tensione e gli scontri di ieri sono anche da mettere in relazione con il raid dei coloni israeliani che hanno messo a fuoco il villaggio palestinese di Hawara, sotto l'occhio indifferente - se non compiacente e complice - delle forze di sicurezza e dell'esercito.[1]
Le accuse al tenore di vita di Bibi e moglie
La protesta, organizzata e spontanea, è così dilagata nell'intero paese, e i manifestanti hanno cominciato a marciare a Tel Aviv e in altre città del paese per tutto il giorno. Una protesta che non è scemata neppure nelle prime ore della sera con cortei sempre più numerosi, che si è ingrossata anche di notte in luoghi diversi, tra cui Tel Aviv, Gerusalemme, Nahariya, Pardes Hanna-Karkur e Zichron Ya'akov. Nella capitale di Israele, che aveva visto rari scontri tra manifestanti e polizia all'inizio della giornata, i manifestanti si sono precipitati a Kikar HaMedina Plaza dopo aver sentito che Sara Netanyahu era in un locale lì per un taglio di capelli. La moglie del primo ministro è rimasta intrappolata in un parrucchiere di Tel Aviv mentre centinaia di manifestanti contro il governo si sono radunati fuori, con la polizia chiamata sulla scena per tenere lontani i manifestanti e Sara Netanyahu costretta ad aspettare ore per essere liberata.
La contestazione a Sara Netanyhau ha precedenti antichi. I coniugi Netanyhau da sempre sono sotto il mirino del giudizio morale popolare per il loro tenore di vita, accusati di essere frivoli e spendaccioni. Una condanna esplosa durante la pandemia, e tradotta per alcuni versi dalle urne nel penultimo turno elettorale che aveva costretto "Bibi" in panchina, dopo un potere durato ininterrottamente dal 2009 al 2021.
Poco prima di mezzanotte, il premier ha twittato una foto (in alto) di lui che abbraccia sua moglie, scrivendo: "L'anarchia deve finire, potrebbe finire per costare vite umane". Ma il premier non ha dato risposte sulla riforma che viene giudicata negativa anche dai ceti imprenditoriali.
Una legge antidemocratica
La settimana scorsa, la rivista delle Chiese Evangeliche italiane Riforma.it, riprendendo quanto pubblicato da moked.it ha bollato la riforma come "un rischio per la democrazia". Nell'articolo si punta il dito sui danni che la riforma arrecherebbe "all’equilibrio tra i poteri e il rapporto democratico", con un chiaro e netto rafforzamento del potere della maggioranza di governo a scapito del potere giudiziario. Qualcosa di simile a quanto accaduto in Polonia e Ungheria, scrivono allarmati professori e premi Nobel israeliani e non, in una lettera aperta al governo di Gerusalemme in cui si chiede una revisione della riforma. L’appello mette in particolare in luce i rischi per l’economia israeliana nel caso in cui le modifiche dell’esecutivo Netanyahu andassero in porto così come annunciate. «Il timore – si legge – è che una tale riforma possa influire negativamente sull’economia israeliana, indebolendo lo Stato di diritto e portando così Israele nella direzione dell’Ungheria e della Polonia. Sebbene le nostre opinioni sulla politica pubblica e sulle sfide che la società israeliana deve affrontare siano molto diverse, condividiamo tutti queste preoccupazioni. Un sistema giudiziario forte e indipendente è una parte fondamentale di un sistema di controlli ed equilibri. Minarlo sarebbe dannoso non solo per la democrazia, ma anche per la prosperità e la crescita economica», la posizione dei firmatari della lettera. Undici premi Nobel l’hanno firmata, tra cui Peter Diamond del Mit, Oliver Hart di Harvard, Paul Milgrom di Stanford e Edmund Phelps della Columbia. Anche l’economista italiano Luigi Zingales dell’Università di Chicago ha aderito".[2]
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