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Israele, Bibi bye bye… almeno per ora

di Menandro|

In Israele, la forza della fragilità è al potere. Nell’ossimoro c’è il voto, un solo voto, che ha fatto la differenza per mettere (momentaneamente) alla porta Benjamin Netanyahu, il premier del terzo Millennio che ha oscurato con la sua longevità al governo i padri della patria dello Stato ebraico. La Knesset, il parlamento israeliano, ha dato fiducia a Naftali Bennett, leader del partito di destra Yamina, perno di una eterogenea alleanza di otto partiti (tra cui un partito di arabo-israeliani, la formazione conservatrice Lista Araba Unita). La maggioranza si appoggia su 60 voti. La metà esatta dei parlamentari della Knesset, 59 dei quali si sono ancora schierati (di fatto) con Bibi-Netanyahu ed uno si è astenuto. Il 36mo governo di Israele, definito del cambiamento dopo quattro elezioni, camminerà come un equilibrista su una corda tesa nel vuoto, assicurando di non soffrire di vertigini. Si fonda dunque su una scommessa che è anche una richiesta che Bennett lancia al Paese insieme con Yair Lapid, il nuovo vice primo ministro, leader del partito Yesh Atid, con cui si prevede una staffetta tra due anni. Una richiesta coraggiosa che si pretende da un popolo coraggioso e orgoglioso: chiudere con la lunga stagione del “contro” incarnata da Netanyahu ed aprire “il tempo del dialogo”; rinunciare alle prove di forza muscolari per dare corpo alla ricerca della mediazione, autentica e sincera, non fondata sul retro pensiero della propria potenza militare, degli apparati di sicurezza e degli avalli internazionali. Bennett e Lapid hanno chiaro che il “governo del cambiamento” non potrà che essere tale se non nascerà dal basso, dal popolo ebraico e non soltanto israeliano, dalle lobby internazionali che si fregiano del titolo di democratiche nei propri paesi d’appartenenza, quanto sono conservatrici se non addirittura reazionarie non appena si preme il tasto dello Stato di Israele. Ci vorrà un miracolo. O tanta determinazione: la stessa che fu richiesta a Mosè per attraversare il Mar Rosso. D’altro canto, Bennett e Lapid sono consci che Israele non potrà rimanere in mezzo al guado, inghiottita dal panico e dalla paura di non avere una prospettiva diversa, alternativa, prima che dai rigurgiti di rivincita di Netanyahu, da colpi di coda venefici per la società e la cultura di Israele che intende parlare al mondo con la forza della ragione e non delle armi. La ragione vissuta come spirito ideale per costruire e non per colpire o distruggere gli avversari, secondo più varianti, una delle quali, quella interna, è stata riproposta alla Knesset, con i parlamentari vicini a Netanyahu che hanno ripetutamente interrotto Bennett al grido ossessivo di “vergogna”, “bugiardo”. Un modello comportamentale che ha fatto da apripista alla denuncia del loro carismatico leader, di quel Bibi che “non ci sta”, che scambia la sconfitta o la non vittoria, secondo i punti di vista, come effetto sempre e comunque di una “truffa elettorale”, che giudica qualunque altro governo privo della sua targa come abusivo o peggio pericoloso. Ma per chi o cosa, Netanyahu non lo dice. Mettersi davanti allo specchio, a volte può fare paura.

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