"Il poliziotto non è un martire e la politica non deve cavalcare le tensioni sociali sulla sua pelle"
- Nicola Rossiello
- 8 ott
- Tempo di lettura: 6 min
Dopo le recenti manifestazioni, anche i Sindacati di polizia dovranno rivedere le loro posizioni e non accodarsi a narrazioni di parte che ignorano le responsabilità dello Stato.
di Nicola Rossiello*

Nell'intervenire ieri, 8 ottobre, il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi ha dato risposta a due interrogazioni parlamentare. La prima, "su una possibile strategia eversiva in ottica antioccidentale e antisemita", l'altra "sulle iniziative volte a far fronte ai rischi per l’ordine pubblico e la sicurezza in occasione di scioperi e manifestazioni, con particolare riguardo al blocco stradale e ferroviario".
Alla seconda interrogazione, Il Ministro dell'Interno ha ribadito "che il governo continuerà a garantire l'incolumità dei cittadini e la piena libertà di riunirsi e manifestare pacificamente le proprie idee, senza rinunciare a valutare ogni altra misura in grado di migliorare ulteriormente la cornice di sicurezza in occasione delle manifestazioni di piazza".
Su questo tema ha precisato che su 8.674 manifestazioni di rilievo dall'inizio dell'anno al 7 ottobre, "solo in 242 casi sono state registrate criticità per l'ordine pubblico, con 330 feriti tra le forze dell'ordine. Inoltre, ha aggiunto che nello stesso arco di tempo, sul totale delle manifestazioni, 2.304 sono state a carattere pacifista e in 84 casi ci sono stati problemi di ordine pubblico, con 242 feriti tra gli operatori di polizia, di cui 146 soltanto negli ultimi dieci giorni". Sull'argomento, ospitiamo un commento di Nicola Rossiello, Segretario generale SILP CGIL Piemonte.
In quanti giorni di manifestazioni e proteste dei sindacati di polizia dopo le manifestazioni c’è qualcosa che non torna, un errore di prospettiva che andrebbe corretto al più presto. Il poliziotto ferito non è un martire, è un lavoratore a rischio che merita protezione. Allora bisogna dire basta alla retorica, è ora di affrontare la realtà, serve coraggio e coerenza.
Rischio professionale e non evento eccezionale
In questi giorni di cortei e tensioni, capita spesso che i sindacati di polizia sentano il bisogno di alzare la voce e ribadire il loro ruolo di tutela della categoria. Ma come lo fanno? Quando un agente viene ferito in piazza, la narrazione pubblica – e spesso anche la prima reazione sindacale – si concentra sulla condanna della violenza dei manifestanti. È una reazione quasi spontanea, che a volte viene chiesta dagli stessi agenti e che i vertici sindacali sentono come un dovere. Peccato che sia una trappola pericolosa, che sposta l’attenzione dal vero problema. Un errore strategico che andrebbe evitato. Il rischio di rimanere feriti non è un’eccezione, è un rischio tipico e strutturale del mestiere. Esattamente come succede in tanti altri lavori.
Nel mondo della sicurezza, la cultura del rischio e la consapevolezza dei pericoli fanno parte a pieno titolo della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, eppure sono temi ostinatamente sottovalutati dai dirigenti di Polizia, che sono i datori di lavoro. Proprio lì, dove il rispetto della legge dovrebbe essere sacro, si registrano le carenze più gravi. Un paradosso che chi lavora nel settore conosce fin troppo bene.
La favola dell’evento eccezionale non regge, quando il pericolo è nel DNA stesso del lavoro. Basta guardare le dinamiche degli infortuni: l’esposizione diretta e intenzionale alla violenza è un pericolo intrinseco e ineliminabile in diverse professioni. Gli operatori del Pronto Soccorso, per esempio, sono spesso aggrediti. È un rischio strutturale, legato al contatto con persone in crisi. Anche il personale di vigilanza o i conducenti dei mezzi pubblici rischiano l’aggressione come conseguenza diretta dell’autorità che esercitano. Per loro, come per l’agente in piazza, il ferimento non nasce da una semplice negligenza, ma dall’azione violenta e intenzionale di terzi. L’infortunio è il risultato di un evento prevedibile, legato alla natura stessa del servizio. Persino la tipologia di danno – contusioni, traumi psicologici – assomiglia a quella di categorie ad alto rischio come i Vigili del Fuoco.
Da un punto di vista psicologico e sociale, insistere con la narrazione dell’evento eccezionale è dannoso: crea nell’agente un’aspettativa irrealistica di sicurezza, trasformando ogni ferita in un doppio trauma, fisico e emotivo, e alimenta socialmente una visione eroica e distorta che impedisce ai cittadini di capire com’è davvero questo lavoro. Sostenere che gli infortuni fanno parte del lavoro non significa rassegnarsi, ma riconoscere professionalmente il rischio, un passaggio necessario per pretendere contromisure adeguate. Accettare il rischio non vuol dire arrendersi, ma contrastarlo con gli strumenti giusti. Concentrarsi sulla “colpa” dei manifestanti, che pure sono gli autori materiali del danno nello scontro di piazza, è un paradosso logico e strategico per un sindacato. È un approccio che non produce risultati tangibili, se non allontanamento dalla realtà, e distoglie lo sguardo dalle vere criticità.
Sarebbe altrettanto illogico se i sindacati dei Vigili del Fuoco protestassero contro il fuoco – l’agente del danno – invece di criticare l’adeguatezza delle attrezzature. O se, per chi combatte la criminalità organizzata, la protesta fosse rivolta al mafioso che ferisce o uccide, invece che alla mancanza di protezione e di mezzi da parte delle Istituzioni.
Evitiamo crociate ideologiche
Sul piano etico e sindacale, questa deriva rappresenta un tradimento della missione: l’etica della rappresentanza impone di proteggere il lavoratore, non di alimentare crociate ideologiche. Usare la figura del manifestante come capro espiatorio è una scelta emotiva, che strumentalizza i rappresentati per fare politica, invece di usare la politica per fermare le azioni violente.
Per la Polizia, quindi, la vera battaglia sindacale è proteggere chi ci protegge, e l’azione deve essere reindirizzata con decisione verso le responsabilità politiche e organizzative.
A livello politico, è cruciale contestare le decisioni – o le mancate analisi – che portano all’escalation della violenza, evitando di politicizzare l’operato della Polizia e di esporre inutilmente il personale con disposizioni tattiche approssimative.
A livello organizzativo, il sindacato deve pretendere misure concrete che rientrano nel dovere di protezione del datore di lavoro: l’adozione di strumenti e dispositivi di protezione individuale all’avanguardia e adatti al rischio di piazza, un addestramento costante sulle tecniche di gestione della folla, e la garanzia di procedure rapide e snelle per il riconoscimento delle cause di servizio e delle tutele economiche che ne conseguono.
Il datore di lavoro, in questo caso lo Stato, ha per legge un obbligo giuridico di protezione che non viene meno di fronte all’alto rischio della mansione, anzi, si intensifica. Fornire DPI inadeguati o un addestramento carente è sempre il risultato di una mancata o errata valutazione dei rischi specifici. La battaglia per DPI migliori, per più formazione, per mediazione con i manifestanti, non è quindi una semplice richiesta sindacale, ma equivale a esigere il rispetto di un preciso obbligo di legge.
Se i sindacati omettono di spiegare e fare propri questi concetti – cioè che le lesioni sono una diretta conseguenza del rischio tipico del lavoro – il danno per la categoria è grave. Perché in primo luogo, la categoria stessa finisce per accettare una narrazione semplicistica che ignora le vere radici dei problemi di sicurezza. Non riconoscere che il rischio di aggressione è connaturato al servizio, priva la rappresentanza del potere di controllo e azione sulla sicurezza sul lavoro. Il sindacato perde la sua autorevolezza tecnica, che dovrebbe basarsi sulla valutazione del rischio, e ogni richiesta si riduce a una lamentela emotiva. In secondo luogo, si favorisce chi strumentalizza la questione a fini politici.
Le organizzazioni dei lavoratori non sono raccoglitori di lamentale
Quando il sindacato si focalizza solo sulla “violenza dei manifestanti”, regala alla politica l’alibi perfetto per eludere le proprie responsabilità organizzative e di investimento. La stessa politica che, con le sue carenze, alimenta il conflitto sociale e le violenze ancor prima di chiunque altro. Così, si devia facilmente l’attenzione mediatica sul nemico esterno, evitando le domande cruciali.
E non è tutto: l’incapacità di agire sul piano tecnico e di principio costringe i sindacati a rincorrere il consenso mendicandolo su un terreno che non è più sindacale. Invece di offrire una tutela concreta, ci si riduce a promettere risposte emotive. Il baricentro del sindacato così si sposta: da garante dei diritti a semplice raccoglitore di lamentele.
C’è poi un aspetto sociale e di coesione civica da considerare: una Polizia di Stato percepita come iper-politicizzata e vittimista, anziché come una professione tecnica e adeguatamente tutelata, perde credibilità e legittimità agli occhi dei cittadini. Al contrario, un organo i cui diritti sul lavoro sono pienamente riconosciuti e garantiti da uno Stato responsabile è una polizia più sicura, più professionale e meglio integrata nella comunità. Ed è proprio questo ciò che serve.
La tutela del lavoratore in divisa è un potente fattore di pacificazione e di rispetto sociale. Ecco perché la battaglia sindacale non può essere contro il rischio in sé, che è implicito nella professione, ma contro l’assenza di tutela e la gestione superficiale e politicizzata di quel rischio.
Analizzare il ferimento come rischio intrinseco non è un mero esercizio teorico, ma un imperativo strategico che tocca più dimensioni: etica, giuridica, psicologica e sociale.
Si tratta di appropriarsi di questi concetti e inquadrare il ferimento come un problema di sicurezza sul lavoro, per ridare autorevolezza, efficacia e dignità all’azione sindacale, e restituire ai poliziotti il ruolo di lavoratori che meritano protezione, non di martiri da sfruttare nella retorica politica del momento.
La polizia ha da sempre l’esigenza di mantenere distanze ben definite dalla politica. Questa è la garanzia autentica del corretto funzionamento di un’Istituzione che deve garantire, allo stesso modo, tutti i cittadini, a prescindere dalle idealità e dalle appartenenze politiche.
*Segretario generale SILP CGIL Piemonte.













































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