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Erdogan: dal fuoco siriano alla brace della Libia

Aggiornamento: 5 apr 2023

di Germana Tappero Merlo

L’approvazione, il 2 gennaio, del Parlamento turco circa la decisione di Erdogan dell’invio di truppe in Libia a sostegno del governo di Tripoli di al-Sarraj per fronteggiare una minacciata offensiva del gen. Haftar dalla Cirenaica, sta bruscamente risvegliando dal torpore alcune cancellerie europee sulle possibili conseguenze circa la sicurezza dei loro territori e il rischio di un mancato approvvigionamento del petrolio libico. Sta agitando l’Egitto e gli Emirati che sostengono la Cirenaica, appunto, ma soprattutto sta ridando vigore in quella regione all’attivismo di un’altra potenza, la Russia. Quel che si sta pericolosamente riproponendo, infatti, sulle coste libiche, così vicine all’Italia, è la riproduzione dei rapporti di forza e dell’antagonismo dello scenario siriano. Anche perché il supporto militare promesso da Erdogan ad al-Sarraj sarà composto da 1600 mercenari jihadisti, provenienti dall’enclave curda di Afrin, conquistata dalla Turchia nel 2018, a cui verranno affiancati 5mila soldati regolari turchi, con una promessa di raggiungere le 8mila unità. I timori non ruotano solo attorno all’esecuzione e ai numeri di tale decisione, quanto alla natura di questi combattenti: non perché mercenari – dato che anche Mosca utilizza quelli del Wagner Group, affiancati da combattenti ‘privati’ bulgari e sudanesi, a conferma di quanto affermato da Lavrov che in “Libia vi è ormai qualsiasi tipo di forze” –, ma perché jihadisti addestrati, reduci da anni di guerra in uno dei fronti più cruenti e militarmente complessi al mondo, quello siriano. E, per quanto venga studiata e spiegata la situazione, la Turchia e la Russia ne risultano sempre protagoniste assolute. Gli interrogativi posti dalla decisione di Erdogan sono numerosi ma sempre uguali, trovando quindi risposte dal tono sempre identico. Fra tutte spicca il desiderio turco di riprendere il controllo di una Libia, territorio dell’ Impero Ottomano, persa tra l’altro per mano italiana nel 1912, ripristinando così la presenza turca nel Mediterraneo centrale, allungando le proprie mani sulla ricchezza petrolifera di quei fondali – da cui l’accordo siglato a novembre scorso a Istanbul con al-Sarraj proprio per la Zona Economica Esclusiva e una nuova demarcazione, del tutto arbitraria, di confini marittimi, usurpando i diritti di Grecia e Cipro – con la naturale irritazione di Egitto e le proteste di Israele, che si sentono oltremodo oltraggiati. A conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che le acque del Mediterraneo debbono essere intese come un fronte di guerra, che si tratti di immigrazione clandestina o per il controllo delle sue ricchezze. Un fronte che è anche un confine naturale dell’Europa, che tentenna e si limita a dichiarazioni di condanna, a invocare blandamente il dialogo o ad ennesime conferenze per la Libia, come quella prossima di Berlino in cui, però, le forze libiche antagoniste non saranno invitate. Ecco che allora, l’azione di Erdogan, sebbene sia condannabile di principio, fa emergere di colpo la natura buia di quest’era di relazioni internazionali e, paradossalmente, la chiarisce. Un’era caratterizzata da una conflittualità permanente, e la sua privatizzazione, laddove la guerra, come il terrorismo, assume un’indole fluida. E come l’eversione si adatta al contrasto che gli viene frapposto, così questa moderna guerra di IV generazione si adatta alla convenienza e agli interessi dei suoi artefici del momento, da cui consegue – e lo si è visto in Siria ed Iraq – la fluidità tattica sul campo di battaglia – da insorgenza a guerra convenzionale sino a terrorismo – a cui si aggiunge la fluidità di alleanze fra i suoi molteplici ed eterogenei attori. Ecco perché può accadere che un Erdogan, che acquista sistemi missilistici di ultima generazione dalla Russia e si appresta ora a inaugurare con Putin il gasdotto Turkish Stream che, dalla regione russa di Krasnodar e attraverso il Mar Nero, raggiunge i terminal turchi, nella Libia in guerra schieri contro il gen. Haftar supportato pesantemente dalla Russia quelle formazioni jihadiste che indussero proprio Mosca a intervenire militarmente in Siria in aiuto al regime di Assad. È una conflittualità che testimonia la profonda crisi della diplomazia, del dialogo, della conflict resolution e soprattutto l’inadeguatezza degli organismi regionali (Unione Europea e Nato) e l’anacronismo di quelli sovranazionali (Onu) di fronte alla mutata natura delle relazioni internazionali e delle sue guerre. È il potenziamento, invece, di nuovi strumenti, come l’uso di eserciti privati, ma anche di nuove armi, come il ricatto sugli avversari ricorrendo alla minaccia di destabilizzazione attraverso flussi di profughi e immigrati, a cui si aggiunge, per l’Italia, il rischio del passaggio di jihadisti in spostamento dai vari scenari bellici. È una conflittualità permanente frutto di colpose manchevolezze che permettono, in tutt’altro scenario, quello iracheno, che un drone statunitense sorvoli quel territorio e uccida un alto funzionario militare iraniano come ritorsione per la morte di un contractor americano, scatenando le ire di Teheran che minaccia ritorsioni, innescando un’escalation al limite del nucleare. Ma questa è un’altra grave storia, seppur appartenga alla stessa conflittualità.



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