Elezioni Liguria: Bucci vince, ma la democrazia proprio no
di Giancarlo Rapetti
Sembra che si sappia, con ragionevole certezza, in attesa della proclamazione ufficiale, chi ha vinto le elezioni in Liguria: il sindaco di Genova e candidato del centro destra Marco Bucci. Quello che si sa con certezza assoluta è chi ha perso: il voto libero e il principio della rappresentanza politica. Cominciamo dall’inizio. Si è andati al voto, nel rispetto della vigente legge elettorale s’intende, a causa delle dimissioni del Presidente della Regione, Giovanni Toti. Quindi i consiglieri regionali, eletti quattro anni fa e in teoria rappresentanti della sovranità popolare ligure, erano semplicemente dei birilli, la cui esistenza dipendeva dal Presidente.
Passiamo oltre: il nuovo Presidente della Giunta Regionale della Liguria è eletto dal 48% circa del 46% di votanti: in pratica ha avuto la “fiducia” di circa il 22% degli elettori. Ciò non gli impedirà, superato il discorso ecumenico di rito, di proclamare da domani che il suo programma ha vinto, che lui rappresenta la maggioranza dei liguri, e chi ha perso deve tacere. Niente di nuovo sotto il sole, tuttavia. Il partito Fratelli d’Italia, alle politiche del 2022, ha avuto il 26% del 64% di votanti, quindi poco meno del 17% degli elettori. Ciò non impedisce a Giorgia Meloni di comportarsi come se fosse il Premier, mentre è Presidente del Consiglio, e di autoproclamarsi interprete insindacabile della (presunta) volontà popolare.
Sia chiaro che le leggi elettorali preesistono alle elezioni e gli eletti in base ad esse sono pienamente ed indiscutibilmente legittimi, a qualunque schieramento appartengano. E’ altrettanto chiaro, però, che questi sistemi elettorali danneggiano il buon funzionamento delle istituzioni. Vorrà dire qualcosa che più della metà degli aventi diritto ha disertato le urne. L’elettore è come il cliente, ha sempre ragione, anche se spesso sbaglia. In Liguria si trovava costretto a scegliere tra due schieramenti francamente impresentabili, al netto delle eccellenti persone presenti in entrambi (che, però, come abbiamo visto, possono solo fare la parte dei birilli). E allora una parte degli elettori non si è sentita di avallare un meccanismo perverso. Si è astenuta, scelta che comunque è amaramente perdente.
Per l’ennesima volta, appare evidente che i sistemi elettorali maggioritari, figli della stagione giudiziaria Mani Pulite, vanno superati, se si vogliono salvare le istituzioni dall’indifferenza ostile del popolo, la minaccia più grave per la nostra giovane ed esile democrazia.
In un precedente articolo,[1] mi ero spinto a formulare alcuni principi per una proposta di legge elettorale per Camera e Senato, semplice, lineare e rispettosa della rappresentanza politica e territoriale, al modesto scopo di suscitare una discussione. Va ribadito, tuttavia, che l’argomento difficilmente può essere risolto dal ceto politico, che si trova in conflitto d’interessi. Occorre che il popolo sovrano prenda in mano la questione, con l’arma politico-giuridica a disposizione, il referendum. Votando, in occasione di quello “confermativo” (previsto dall’articolo 138 della Costituzione), per bocciare il premierato, e riproponendo quello “abrogativo” (previsto dall’articolo 75) per cancellare le norme peggiori del Rosatellum.
Gioverà ricordare che nella storia dell’umanità ci sono voluti migliaia di anni perché una parte (minoritaria) del mondo conquistasse la democrazia. Noi privilegiati, che viviamo in paesi democratici, diamo tutto per scontato, e dimentichiamo che i beni più preziosi sono quelli a maggiore rischio di perdita.
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