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Elezioni europee e regionali: test per i leader, meno per la democrazia...

di Giancarlo Rapetti*


Il comune cittadino o l’osservatore attento ormai devono rassegnarsi: nelle elezioni europee che si terranno tra poco non si parlerà di Europa. Saranno un test massivo, senza le alchimie del campionamento statistico, sul gradimento dei leader, a fini di politica interna. Già le elezioni regionali svolte recentemente, e quelle prossime in Piemonte, non sfuggono alla regola generale: il risultato si presta a valutazioni e interpretazioni su piani diversi.

Il primo è la semplice lettura dell’esito: i votanti hanno scelto Presidente e Consiglieri della Regione. Sembrerebbe l’unica lettura razionale, ma c’è un secondo livello: l’esito delle urne è visto come un sondaggio sul gradimento di chi sta a Palazzo Chigi. Per assurdo che possa sembrare, è una lettura inevitabile. Il 25 Aprile del 1945 aveva liquidato l’idea dell’uomo solo al comando, unico interprete della volontà popolare, che decide in solitudine per tutti. Il ripristino della democrazia rappresentativa dura ancora sul piano istituzionale, ma sul piano della cultura politica è andato in crisi dopo i primi quarant’anni.

Cominciò Bettino Craxi, segretario del Psi, acclamato dai suoi e applaudito come “moderno” dalla pubblica opinione. Silvio Berlusconi con Forza Italia compì il capolavoro, con il Capo eletto definito “l’unto del Signore”. La sua comunicazione fu di una efficacia persuasiva straordinaria. Dal 1994 infatti si cominciò a parlare di “governi eletti”, con una sgrammaticatura istituzionale diventata verità con la forza delle bugie ripetute molte volte. Il grillismo ha cavalcato l’onda, deridendo e svalutando il Parlamento, e Giorgia Meloni, numero uno di Fratelli d'Italia ne è l’ultimo più lucido ed efficace interprete.

Il Capo ha bisogno di misurare in continuazione il consenso, senza mettersi in realtà in discussione. E così ogni elezione, dal Comune di Neverlandia alla Regione Lombardia, è un sondaggio sul Capo del Governo. Un sondaggio, tra l’altro, sempre vincente: se vince, è una conferma del consenso di cui il Capo gode, se perde, si tratta pur sempre di una elezione in cui il Capo non era direttamente sotto esame. Difficile dire se si possa uscire da questo meccanismo perverso: basta guardare quanti loghi di partito, anche insospettabili, recano, sopravanzando altre simbologie, il nome del leader di turno. E guardare al fatto che alla fine la maggior parte dei leaders, anche quelli che avevano criticato fino a pochi giorni prima quella scelta, hanno deciso di candidarsi alle Europee dicendo, come se fosse una attenuante, che comunque non andranno a Strasburgo e a Bruxelles.

Infine c’è un terzo livello. Le urne delle regionali sono servite e servono per prefigurare scenari futuri: alleanze, campi, fronti o qualunque altra formula la fantasia dei politici o dei cronisti riesca a inventare. Questo è un risultato inevitabile delle leggi elettorali che per le Regioni, come per il Parlamento, sono ipermaggioritarie. L’elettore non può permettersi il lusso di scegliere i candidati, è costretto a scegliere uno schieramento. Alcuni politici, considerati, a ragione, di grande qualità e spessore, dicono di voler valutare la propria collocazione caso per caso, secondo candidati e programmi. Nel contesto prima descritto, queste velleità appaiono patetiche.

Per le europee il meccanismo è diverso, lì si gioca sul meccanismo delle preferenze, allo schieramento subentra direttamente la persona del leader, e non è meglio. Come si vede, le elezioni regionali e quelle europee stimolano complesse riflessioni, da cui scaturiscono molte domande e poche risposte.

La cultura politica si modifica solo col tempo e con trasformazioni profonde. Si potrebbe cominciare con lo scardinare le leggi elettorali, riportandole alla loro natura di scelta dei rappresentanti del popolo sovrano.  Ma la maggioranza al potere, qualunque essa sia, non cambia una legge che ritiene la favorisca. C’è però una occasione che potrebbe consentire di invertire la rotta, dando modo al popolo di interrogarsi sul funzionamento della democrazia: la difesa della Costituzione contro il premierato. Questa battaglia potrebbe unire tutte le opposizioni, che per il resto hanno pochi punti in comune, anzi in alcuni casi sono proprio contrapposte.

Purtroppo finora questa battaglia comune non si vede: ognuno va per conto suo, con pericolosi cedimenti di principio, frutto della perversa convinzione che cambiare qualcosa in peggio sia comunque “riformismo innovativo”. Eppure sarebbe semplice. Alla domanda di Chicco Testa “ma le opposizioni hanno una proposta alternativa a quella del governo sul premierato?”, la giornalista Chiara Geloni (che cito volentieri perché non sono quasi mai d’accordo con lei) ha dato una risposta definitiva: “sì, si chiama Costituzione della Repubblica Italiana”.  


*Componente della Assemblea Nazionale di Azione

 

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