Centro sinistra: le vittorie di ieri aiutino a riacquisire il senso della politica per il domani
- Beppe Borgogno
- 19 nov 2024
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Aggiornamento: 19 nov 2024
di Beppe Borgogno

Il centrosinistra ha dunque vinto le elezioni regionali sia in Emilia Romagna che in Umbria. La lunga tornata di scadenze elettorali regionali, iniziata in Sardegna lo scorso febbraio, si conclude così con il risultato di 4 a 3 per il centrodestra: Abruzzo, Basilicata, Piemonte e Liguria contro Sardegna, Emilia Romagna e Umbria. E’ una tornata, va detto, che ha permesso al centrosinistra di conquistare due regioni, Sardegna e Umbria, che prima erano governate dallo schieramento avversario, inframmezzata dalla vittoria, a giugno, in diversi comuni importanti, sempre per il centrosinistra. Si può quindi parlare di una sua robusta ripresa, o addirittura rivincita, e di prime crepe nella coalizione di governo, come si legge in qualche commento?
Come spesso accade, in Italia ma non solo, se si commenta il voto limitandosi a guardare chi ha vinto e chi ha perso si corre il rischio di semplificare un po’ troppo, soprattutto di questi tempi. Cominciamo con il centrosinistra. La stagione elettorale si era aperta a febbraio, in Sardegna, con l’affermazione della coalizione progressista raccolta attorno ad Alessandra Todde, che aveva dato il via al tentativo di costruzione del cosiddetto “campo largo”: una alleanza strategica e permanente per battere la destra. Non si può dire che quel percorso, indipendentemente dai successivi risultati elettorali, abbia raggiunto tuti gli obiettivi politici desiderati: in particolare attorno alle elezioni liguri, e prima in Basilicata e in Piemonte, tutti ricorderanno le tensioni tra la potenziale area riformista del centrosinistra, Il PD e il Movimento 5stelle, e poi gli scontri nel mondo ex grillino.
Le vittorie del centrosinistra in Emilia Romagna ed Umbria, e prima ancora in Sardegna, sono certamente figlie di una ritrovata volontà di allearsi, dato che le alleanze sono necessarie per poter almeno competere, ma a geometria variabile e senza che fin qui si possano ancora identificare i caratteri essenziali di una coalizione in grado di essere competitiva davvero sul piano nazionale. Quei successi sono in particolare da attribuire ad una ritrovata energia del Partito Democratico a guida Elly Schlein (e forse anche ad una sua riuscita “polarizzazione” in alternativa a Giorgia Meloni), ed in parte di Alleanza Verdi e Sinistra, e poco altro, in particolare sul fronte che si autodefinisce riformista e per l’evanescenza del M5S.
Sarebbe sbagliato e ingeneroso, però, limitarsi “buttare la croce” sui leader delle varie formazioni del centrosinistra (che comunque di responsabilità ne hanno) o dimenticare il quadro generale e persino quello internazionale, ma non pare che ci troviamo ancora di fronte ad un cantiere aperto per costruire una alternativa forte alla destra. Anzi, sono semmai le incertezze, le titubanze ed anche le differenze proprio sulle questioni generali ed anche internazionali a far capire che, indipendentemente dai risultati elettorali recenti, il lavoro da fare è enorme.
Quindi la destra, anche se ha perso qualche regione, rimane forte, unita ed imbattibile? Magari sostenuta, se serve, anche dal vento della vittoria di Donald Trump, che soffia da oltreoceano?
Certo, è difficile vedere una minaccia immediata per la maggioranza ed il governo di centrodestra. Tuttavia, ci sono da registrare almeno due fenomeni che, in futuro, potrebbero aprire qualche spazio, o qualche crepa. Il primo era già noto, ma le conferme non mancano: la destra italiana ora al governo stenta ad offrire al Paese una classe dirigente all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte. Non nelle periferie, e questa è una delle ragioni di qualche sconfitta: persino la vittoria ligure, quella del sindaco di Genova Bucci, è semmai la vittoria di una figura vista come “civica”, certamente più del suo avversario Orlando, ma non di una nuova classe dirigente della destra.
Ma nemmeno nel governo nazionale: pensiamo alla imbarazzante campagna per dare corpo ad una presunta nuova “egemonia culturale” (per carità di patria sorvoliamo sul caso Sangiuliano), o alla necessità continua di trovare nemici o capri espiatori (prima fra tutti la magistratura), per non dover spiegare la pochezza dell’azione legislativa e di quella del governo. Per non parlare degli inciampi delle riforme costituzionali, della fragilità e dalle contraddizioni della manovra finanziaria, tra mance e condoni, o dell’assenza di una vera politica economica, e via dicendo. Insomma, se l'Italia galleggia (perché i dati ci dicono che non fa molto di più che galleggiare) ben poco merito si può dare ad una classe dirigente impegnata più nella propaganda che in altro.
La seconda novità a destra è la presenza, almeno apparente, di un po’ di dibattito. Sarà pure perché Forza Italia dopo la scomparsa di Berlusconi doveva trovare uno spazio politico, o per riequilibrare il trumpismo all’italiana del ministro dei trasporti Salvini, ma la presenza, anche, di una visione moderata in una destra mai del tutto libera dal "nostalgismo" non è una brutta notizia, persino in controtendenza rispetto al vento con forti connotati illiberali che pare spirare anche in Europa.
In generale, però, un quadro non così rassicurante. Ma ci si sente ancora meno tranquilli se si prova ad allargare un po’ l’ampiezza dell’analisi. Cominciando dalla vera costante di tutti gli ultimi appuntamenti elettorali, cioè il continuo calo degli elettori. Nei sette appuntamenti elettorali regionali dell’ultimo anno, per ben tre volte (Basilicata, Liguria ed Emilia Romagna) ha votato meno del 50% degli elettori. Negli altri quattro casi l’affluenza è salita poco sopra il 50%, con il Piemonte che “svetta” con il suo 55,3. E anche se c’è chi parla di “elezioni poco competitive e candidati con scarso appeal”, le Regioni sono pur sempre le istituzioni destinatarie, in prospettiva, dei tanti poteri devoluti con l’autonomia differenziata.
C’è chi prova a spiegare la bassa affluenza in Emilia con la rabbia per i ripetuti aventi alluvionali (-21% di elettori rispetto a quattro anni fa), o il caso della Liguria con lo scandalo Toti, ma perché ad esempio il meno 12% in Umbria?
Il punto vero, di cui ci si occupa troppo poco, per il futuro del nostro sistema democratico, sta forse anche da un’altra parte: in una classe politica che non sempre si dimostra all’altezza, e che così contribuisce a rafforzare una ormai cronica tendenza ad allontanarsi dalle istituzioni. Una preoccupazione, quella di dimostrarsi all’altezza, che pare non aver trovato grande spazio nemmeno in quest’ultima campagna elettorale. Non è stato un bell’esempio, probabilmente, per gli alluvionati emiliani che chiedevano qualcosa al governo (e anche alla Regione, ma per quella stavano votando) sentirsi rispondere “Ci prenderemo l’Emilia Romagna” o “Libereremo l’Emilia Romagna”.
Ma si sa, gli esperti di comunicazione politica spiegano che se va meno gente a votare, ognuno deve saper “mobilitare i suoi”. Ed è triste che per farlo la destra agiti lo spettro della violenza degli anni ’70 come un pericolo reale, come se ci fossero ancora il terrorismo armato e come tale contrastato in prima persona dal Partito comunista italiano e dai suoi militanti (ricordiamo l'uccisione dell'operaio genovese Guido Rossa da parte delle Br), lo stragismo, che all'opposto ha sempre visto condannati esponenti di estrema destra, e una fortissima tensione sociale di massa (che per fortuna sono davvero lontani, anche se qualunque episodio di violenza, compresi quelli a cui abbiamo assistito, va condannato senza se e senza ma). E come se non fosse proprio la destra italiana a fare fatica a liberarsi definitivamente da quel pezzo della sua storia: dalla retorica del ghetto politico eternamente minacciato e dalla voglia di rivalsa, e dall’idea della democrazia come rifugio ma anche come arma del “sistema”.
E se poi, mentre il Presidente della Repubblica richiama tutti ai propri doveri istituzionali, la seconda carica dello Stato, il Presidente del Senato Ignazio La Russa, ci mette del suo per evocare gli anni di piombo, proprio lui che a Milano partecipava da dirigente del Movimento sociale italiano e esponente della destra sanbabilina a scontri con l'estrema sinistra e a manifestazioni di protesta anche a fianco a Ciccio Franco, il leader di Reggio Calabria del "boia chi molla", in una delle quali (non autorizzata dalla Questura) fu ucciso l'agente di Ps Antonio Marino (12 aprile 1972) con una bomba SRCM lanciata dal corteo, siamo messi maluccio. Cioè, se questa è la tecnica, nel 2024, per mobilitare la propria base elettorale, altro che dimostrarsi all’altezza dell’oggi, che è fatto di ben altro: dalla crisi del sistema sanitario all’impoverimento delle famiglie, per fare soltanto due esempi.
Dall’altra parte, il richiamo all’unità del centrosinistra è stata la vera parola d’ordine della campagna elettorale, e almeno in questi ultimi casi ha fatto la differenza. Bisogna però che cominci finalmente ad essere articolata un pochino meglio: l’unità con chi, tra chi e per che cosa, dovrebbe diventare il tema che anima lo spirito necessario per tentare di costruire un’alternativa. Che deve poggiare, anche qui, sulle cose concrete di cui il paese ha bisogno. Insomma, anche in questa ultima campagna elettorale, una classe politica che sapesse parlare davvero dell’oggi e del futuro, e prendersi qualche responsabilità, forse avrebbe almeno convinto qualche elettore in più ad andare alle urne.
Ci attendono prove importanti e, forse, tempi non semplici: in giro ci sono tante guerre, a cominciare dal Medio Oriente e dall’ Ucraina, c’è un'Europa sulla cui stabilità non è semplice scommettere, ci saranno gli effetti di ciò che farà Trump, in ogni campo, non solo quello economico, con cui fare i conti. Ma c’è anche il tema della tenuta del sistema democratico, e del suo carattere: tema, anch’esso, di una concretezza assoluta. Nel mondo occidentale si affermano sempre di più quelli che vogliono chiudere il ciclo della democrazia liberale, per sostituirla con qualcos’altro che altrettanto liberale non è.
Anche da noi, in tanti modi, e qualcuno lo troviamo tra gli esempi fatti qui, c’è il tentativo di avvelenare l’aria quel tanto che basta per assuefarsi ad una democrazia cosiddetta illiberale. Abituarsi, senza reagire adeguatamente, ad una disaffezione progressiva dal primo esercizio democratico, il voto, significa non avere del tutto chiaro il pericolo. La ricetta della destra la conosciamo: è quella plebiscitaria, ma a quanto pare anche piuttosto sgangherata, che ispira le riforme costituzionali in corso d’opera.
Non è ancora del tutto chiara quella del centrosinistra, che ha bisogno di unità ma non solo; che è giustamente e meritatamente contento di alcuni suoi risultati, ma non può accontentarsi. Che esulta perché la Corte Costituzionale ha azzoppato l’autonomia differenziata e perché zoppica anche il “premierato”, ma deve probabilmente pensare di costruire qualche proposta sul terreno delle riforme istituzionali utile a proteggere il sistema democratico dal pericolo di logoramento. Oppure, quando forse potremo votare ad un referendum per impedire di spaccare il Paese in due, tra regioni ricche e regioni povere, lo troveremo già irrimediabilmente spaccato tra chi crede ancora nelle istituzioni democratiche e chi ci crede sempre meno. Come vedete, ragionando sul voto, se si vuole si può andare molto in là.













































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