Alla ricerca della Leva che può ritornare solo nei ricordi
- Michele Corrado
- 4 giorni fa
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di Michele Corrado

Dopo le riduzioni delle Forze Armate decise a suo tempo dal Governo Monti, con l’Ammiraglio Di Paola, ministro della Difesa, e terminate nel 2024 per definire gli organici complessivi a circa 180.000 effettivi, ci si è accorti che il quadro geostrategico internazionale era in forte evoluzione.
Il conflitto ucraino ed il preannunciato parziale disimpegno degli Stati Uniti all’interno dell’Alleanza Atlantica ha portato in primo piano le reali capacità ed il grado di efficienza delle Forze Armate nazionali. Innanzitutto, ci si è quindi accorti che lo “standard prestazionale” non corrisponde a quanto ci si aspetta dagli apparati militari che devono garantire la nostra sicurezza da qualsiasi minaccia ostile esterna.
La sospensione della leva obbligatoria ed il passaggio al modello professionale ha poi influenzato un altro elemento non secondario: la percezione generale nei confronti dell'intero sistema Difesa. Si credeva che diminuendo gli effettivi si avesse come effetto immediato un aumento della qualità della componente umana ed un conseguente innalzamento delle capacità di intervento dei vari assetti.
Purtroppo, ciò si è rivelato distante dalle attese ed ora ci si ritrova con insufficienti risorse umane, in particolare per l’Esercito, e con un livello qualitativo delle Forze inadeguato ai compiti previsti.
Così si è tornati a riproporre il ritorno al modello della leva militare di antica memoria. Ma se ne parla come uno "spauracchio", decontestualizzandolo dal periodo storico (1946-2004) in cui si è sviluppato nell’Italia repubblicana, cioè il dopoguerra, la contrapposizione tra Est e Ovest, la creazione della Nato a trazione americana con la luogotenenza britannica, una pace fondata sulla deterrenza nucleare.
Ora, un ritorno a quel passato strutturale, almeno per il nostro Paese, è pura fantasia, sia per i costi economici (al momento non sostenibili), sia per i tempi di attuazione (dieci anni, minimo?). Ma, al di là di questi aspetti che non sono trascurabili, si tratta di definire, in una geopolitica profondamente mutata dal periodo della Guerra Fredda, con Stati che non esistono più ed altri nati da quella stessa dissoluzione, con una moltiplicazione elevata (si pensi alla ex Jugoslavia, all'Urss) è fondamentale articolare un pensiero su quale modello di Difesa è funzionale per il nostro Paese in funzione della sicurezza che devono garantire le Forze Armate nei confronti di una minaccia definita.
L’Italia è una penisola protesa nel Mediterraneo, si presume quindi che debba avere forti interessi marittimi e confrontarsi con minacce ad essi riferite. Non siamo la Germania, né la Polonia che sono posizionate nelle pianure centrali europee con possibili problemi di sicurezza delle frontiere terrestri orientali nei confronti di una potenziale aggressione russa.
Ciò significa che dovremmo disporre più di preponderanti assetti aeronavali che di divisioni corazzate, per esempio. E per disporre di tali forze credibili, queste debbono essere tecnologicamente avanzate con personale permanente ed altamente addestrato e mantenuto tale nel tempo. Impegno che i militari di leva, pur concedendo il massimo sforzo organizzativo agli Stati maggiori e al ministero competente, non potranno garantire, anche con modelli di riserva di personale volontario disponibile per un certo tipo di impiego. A escluderlo sono poi, ed è noto, le risorse (e non solo economiche) del Paese.
Allo stato attuale delle cose, in presenza di una visione pacifista della società italiana, che in alcuni casi associa un incisivo antimilitarismo in una cornice di interessi complessi sullo sfondo di posizione geostrategica che non vede estranea il ruolo attivo dei nostri alleati, è doveroso soltanto decidere in quale ambito e con quali assetti essere altamente competitivi, accettando settori di estrema vulnerabilità che non possono comunque essere protetti, se non con l'apporto di una struttura sovranazionale.
Per quanto possa essere difficile da accettare, più sul piano dell'orgoglio nazionale, però, che su un piano di realismo, il quadro in cui si muove l'Italia rovescia il modello della leva obbligatoria o volontaria su basi allargate, proprio perché oggi, e lo dimostra il conflitto in Ucraina, le esigenze di impiego per rispondere adeguatamente a una guerra ibrida o guerreggiata passano da risposte che non sono quantitative, ma dall'utilizzo del personale a un veloce e continuo sviluppo tecnologico dei mezzi e delle strutture. Il che, ora più che mai, impone un coordinamento strategico a livello europeo per evitare duplicità, diseconomie e sperperi.













































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