Vicinanze: dalla protesta studentesca alla "casa della mente" di Franco Basaglia
di Stefano Maria Cavalitto
E’ balzato all’attenzione di molti, sulla scorta dell’eco mediatica riservata, il fatto che nelle ultime settimane gruppi di studenti più o meno organizzati abbiano inscenato una protesta relativa alla cosiddetta questione del “caro affitti”. I giovani universitari (e peraltro non solo loro) constatano una smisurata crescita dei prezzi a cui le case vengono poste in affitto. Una situazione che costringe chi è fuori sede a sacrifici economici ormai eccessivi, anzi spesso impossibili, a fronte di una non sufficiente offerta di edilizia residenziale universitaria che permetterebbe di risiedere nella città in cui si studia a prezzi calmierati.
L'esplosiva questione degli affitti
Il problema evidenziato da tale protesta non riguarderebbe peraltro solo chi studia, ma anche una consistente fetta di popolazione giovanile che al primo o secondo impiego non riesce, non solo a ottenere un mutuo per l’acquisto di una prima casa al di là del contingente rialzo dei tassi attuale, ma nemmeno riesce ad ottenere un contratto di affitto onorabile o addirittura si sente respinta in partenza dai proprietari che non ritengono a priori affidabile il potenziale futuro locatario.
Non entriamo più di tanto nel merito di tale rivendicazione, se non constatare che una protesta così diffusa non può che avere consistenti dati di realtà e ragionevolezza. Proviamo, come accennato nel titolo, ad andare un po’ oltre e vedere che cosa può suggerire alla coscienza collettiva tale azione. Di sicuro la voglia, anzi necessità da parte di una fetta di popolazione, quella tra i 18 e i 30 anni circa, giusto per dare un range, di rendersi visibile. Passati tempi delle manifestazioni ideologiche che oggi non sono certo scomparse, ma sono più sparute, le occasioni di rendersi visibile (e rendere visibili ai più i propri bisogni) per i cosiddetti giovani sembrano rare. Di sicuro la tematica ambientale pare quella più sentita, anche a livello trasversale tra le generazioni, ma restando nel panorama italiano, il fatto che molti giovani si siano ri-trovati davanti alle facoltà universitarie a rivendicare qualcosa vale una riflessione un po’ più approfondita.
Simbologia e identità
Partiamo innanzitutto da ciò che viene rivendicato: una casa, o meglio più che il diritto, la possibilità di disporre di una casa. Simbolicamente la casa ha un significato enorme, polisemico, che lasciamo alla riflessione di ognuno; sottolineeremo tuttavia tra i molti, il fatto che avere una casa, un proprio spazio di cui disporre è un evento evolutivo, individuativo fondamentale per l’essere umano, è avere un luogo in cui poter essere se stessi per progettare e progettarsi. La casa come spazio intimo è il luogo al tempo stesso di partenza ed arrivo del nostro stare nel mondo, è segnare un dentro ed un fuori, è il luogo simbolico della nostra identità.
Non intendiamo con questa parola una rivendicazione identitaria (tantomeno ovviamente nazionalistica o etnica addirittura, tornata tristemente di moda, ultimamente ). Identità è il nostro modo di stare al mondo e nel mondo, il nostro microcosmo nel macrocosmo, un puntino nell’infinito, ma infinitamente importante per ognuno di noi. Identità paradossalmente come qualcosa di poroso e e passibile di trasformazione e al tempo stesso luogo in cui riconoscere se stessi.
Tale ordine di riflessioni ci concede l’occasione di associare un altro evento che ricorre in questi giorni: il 13 maggio, due giorni fa, è la data in cui si ricorda il movimento che grazie a Franco Basaglia ed i suoi collaboratori ha portato alla Legge 180 del 1978 ed alla conseguente opera di deistituzionalizzazione della psichiatria italiana. Ho avuto la fortuna e l’onore di essere un allievo di Agostino Pirella che fu stretto collaboratore di Basaglia a Gorizia per poi andare a coordinare i servizi psichiatrici ad Arezzo. Quale trait d’union lega quindi la protesta studentesca universitaria attuale con questo anniversario? Semplice: appunto, la casa.
Psichiatria: gli ideali "incompiuti" degli Anni Settanta
Uno dei punti fondanti dell’opera di superamento delle istituzioni totali manicomiali era proprio poter disporre di una casa propria da parte di chi non aveva diritto di cittadinanza in senso assoluto e viveva ammassato nei manicomi. La cura passava (anche) dal diritto o dalla possibilità di avere un luogo considerato proprio, intimo ed accessibile: il poter leggere il proprio nome sul campanello del citofono di un’abitazione considerata propria era il primo passo di una possibile cura che faceva da prodromo alla poi relativa responsabilità di aver cura di tale spazio personale. Non andiamo oltre su tale tema, se non nel poter dire che tale opera è rimasta drammaticamente incompiuta anche nell’adattamento a tempi e necessità che sono ora diversi dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, anche facendo riferimento ad uno degli ultimi drammatici eventi di cronaca in cui un’operatrice psichiatrica è rimasta vittima nell’esercizio della professione: riprendendo le parole di Vittorino Andreoli, che si esprime a tal riguardo, egli afferma che più che polizia e carabinieri a difesa degli operatori psichiatrici, occorre che ci sia maggior personale e progetti sostenibili e sostenuti in tale settore. Forse parrà irriverente collegare la protesta odierna dei giovani universitari con il tema della follia. Consideriamola piuttosto una provocazione, ma non troppo, visti anche i crescenti indicatori di disagio legati ai giovani ed all’età evolutiva più in generale.
Il bisogno di comunità
Aggiungeremmo ancora una riflessione proprio a riguardo del tema da cui siamo partiti, la protesta universitaria sul “caro affitti”. Questa riguarda il modo in cui tale protesta è stata portata. Non con sfilate, cortei, con flash mob o attività più o meno eclatanti, ma con l’accamparsi in tenda davanti agli edifici che in qualche modo rappresentano le istituzioni considerate sorde ai tali bisogni. Ebbene, se tale gesto è evidente che in modo isomorfico rimanda alla dimensione abitativa ("non ho una casa e me ne invento una posticcia qui davanti a te per fartelo notare") potremmo anche pensare che questo particolare modo di protestare contenga un bisogno di comunità, un bi-sogno di condividere il proprio quotidiano paradossalmente non nel chiuso della mura della propria casa, una volta ottenuta, ma il sogno di viverla in una dimensione collettiva quale quella del “campeggio” ci ricorda, sia pur con qualche privazione che la vita in comune richiede, per una minima rinuncia del superfluo in nome della dimensione condivisa.
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