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STEEME COMUNICATION snc

<strong>Pagine di storia<p><div style="text-align:justify"></strong><em></em> I 150 anni della Comun

di Stefano Marengo |

Al principio di tutto, per la Francia, ci fu la catastrofe della guerra franco-prussiana. Napoleone III, dopo vent’anni di dominio, vedeva ormai declinare la sua buona stella. Quale migliore occasione di un’impresa da uomo d’arme per rinverdire un prestigio intaccato? Fu così che, nonostante la conclamata inferiorità militare francese, l’imperatore decise di tentare la sorte e cedette alle provocazioni di Bismarck. Il quale, per parte sua, desiderava la guerra per completare l’unificazione del Reich tedesco, ma non intendeva assumersi l’onere di sparare il primo colpo. Il conflitto scoppiò il 19 luglio 1870. Poco più di un mese dopo era già stato raggiunto il punto di non ritorno: il primo settembre, a Sedan, la Francia subì una tremenda disfatta. Napoleone III fu fatto prigioniero dai prussiani. La fortuna, evidentemente, gli aveva voltato le spalle. Il Secondo Impero crollava nella vergogna. Fine della guerra? Niente affatto. A Parigi, il 4 settembre, i cittadini in rivolta presero d’assedio Palazzo Borbone, sede dell’Assemblea Nazionale. Poco più tardi, quello stesso giorno, all’Hôtel de Ville fu proclamata la Terza Repubblica e fu formato un governo di “difesa nazionale”. La guerra con la Prussia proseguiva, ma adesso assumeva un altro significato. Non era più un conflitto per affermare la potenza dell’Impero, ma una lotta per salvare l’onore e l’indipendenza della Francia. Per Parigi, città delle rivoluzioni, tutto ciò significò soprattutto mobilitazione contro il pericolo reazionario. Contro la reazione incarnata dalla Prussia del Kaiser e di Bismarck, ovviamente. Ma anche contro la reazione interna: bisognava evitare che a manovrare le leve del nuovo regime repubblicano fosse la vecchia classe dirigente bonapartista. In questo clima, sotto la pressione dell’assedio tedesco e con una sostanziale sfiducia nei confronti del governo nazionale, in ogni arrondissement parigino furono formati comitati di vigilanza repubblicani e socialisti. Il popolo si armò. A ottobre si contavano già trecentomila uomini in armi inquadrati in 254 battaglioni della guardia nazionale. Iniziò un periodo tremendo. La città fu stretta d’assedio per quattro mesi dalle truppe prussiane. La popolazione, ridotta alla fame, arrivò a cibarsi con la carne dei ratti. Ma resistette. Resistette fino a quando, il 28 gennaio 1871, il governo di difesa nazionale decise di capitolare. Un armistizio umiliante. Dieci giorni dopo, su imposizione di Bismarck, si tennero le elezioni per l’Assemblea nazionale. Le urne, proprio come auspicato dal Cancelliere del Reich, diedero una netta maggioranza allo schieramento conservatore: circa il 60% dei seggi fu conquistato da monarchici e bonapartisti, funzionari del vecchio regime, grandi proprietari terrieri e ricchi borghesi. Riunitosi a Bordeaux, il Parlamento pose l’orleanista Adolphe Thiers a capo dell’esecutivo. Il programma era chiaro: bisognava concludere la pace con la Prussia, ma per questo occorreva, come primo passo, disarmare i parigini e sottomettere definitivamente la capitale. La reazione era incominciata. Ma Parigi non cedette. Alle elezioni parlamentari la città, ancora una volta in controtendenza rispetto al resto del paese, aveva visto la netta vittoria dello schieramento rivoluzionario, repubblicano e socialista. Nel frattempo, i comitati rionali della guardia nazionale, nati spontaneamente, avevano dato vita a un Comitato centrale a cui aderirono anche i comitati di arrondissement e la sezione francese dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, la Prima Internazionale. Il nuovo organismo, tramite la sua commissione elettiva, agì da subito come il governo di fatto della città. Bisognava proseguire la resistenza contro i prussiani e contro Thiers. La situazione degenerò presto. Il 18 marzo, col favore della notte, l’esercito governativo al comando del generale Lecomte tentò di impadronirsi dei cannoni che la guardia nazionale aveva posizionato sulla collina di Montmartre. Fu dato l’allarme e, nel volgere di qualche minuto, le strade furono invase dalla folla. Lecomte ordinò di aprire il fuoco, ma la truppa si ribellò e fraternizzò con il popolo in armi. La rivolta, a quel punto, divenne un’onda travolgente. Altre incursioni dell’esercito vennero respinte. Nel pomeriggio il Comitato centrale diede ordine alla guardia nazionale di occupare tutti gli edifici governativi e le caserme. Nei grandi boulevard cittadini furono costruite le prime barricate. Thiers e i suoi ministri, presi dal panico, fuggirono a Versailles. Quando, verso sera, sull’Hôtel de Ville venne issata la bandiera rossa, fu chiaro a tutti che qualcosa era cambiato nel corso della storia. Erano iniziati i giorni della Comune. Quel 18 marzo di 150 anni fa, per la prima volta, il popolo si impadronì del potere politico. “In piedi, dannati della terra! In piedi, forzati della fame!”: il poeta Eugène Pottier (1816-1887) scrisse L’Internazionale proprio per celebrare la sollevazione parigina. Che fu un evento epocale, guardato con terrore dai governi di tutta Europa, salutato con entusiasmo e speranza da milioni di proletari. Proprio per loro, per i proletari, l’impresa comunarda fu una rivelazione. Ciò che sembrava impossibile era effettivamente accaduto. Un mondo diverso non era soltanto un sogno. Forse lo si poteva davvero conquistare.

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