La vittoria di Trump: capolinea per la democrazia razionale?
Aggiornamento: 10 nov
di Giancarlo Rapetti
Giuliano Ferrara definì l’avvento di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi “al tempo stesso inverosimile e inevitabile”. Il commento si presta ottimamente anche per salutare la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane. L’ultimo anno del precedente mandato infatti era iniziato con Trump che invitava a iniettarsi la conegrina per combattere il Covid (affermazione dallo stesso Trump poi definita un sarcasmo, chissà). Ed era finito con l’istigazione ai suoi seguaci affinché assaltassero la sede del Congresso, il 6 gennaio 2021, per impedire la proclamazione del risultato elettorale del novembre 2020 che assegnava la vittoria a Joe Biden. Ce n’era abbastanza per la sua scomparsa dalla vita politica: invece è sempre rimasto sulla scena, più baldanzoso e aggressivo che mai, sempre sopra le righe, e ha ottenuto una vittoria che non lascia dubbi. I commentatori più qualificati hanno indagato il risultato, cercando spiegazioni convincenti e razionali in ambito politico, economico e sociale. Prima di passare alla politica, ci sono alcuni punti che nella vicenda mi hanno colpito, non necessariamente collegati tra loro.
Trump, sempre nel suo precedente mandato, ci aveva abituati al fatto che non manteneva le promesse, specialmente quelle più roboanti. Aveva promesso il muro impenetrabile al confine con il Messico, per fermare l’immigrazione massiccia dall’America Latina, e aveva promesso che lo avrebbe fatto “pagare al Messico”. In realtà ha solo incrementato le barriere protettive, che già Obama aveva cominciato a costruire, e che poi Biden continuerà, e naturalmente non le ha pagate il Messico. Biden ha gestito in modo disastroso il ritiro da Kabul nell’agosto 2021, ma il negoziato in Qatar con il quale è stato riconsegnato il paese ai Talebani era stato condotto e concluso da Trump.
Il Tycoon è uscito dall’accordo JCPOA, con il quale nel 2015 si era cercato di imbrigliare temporaneamente le mire nucleari dell’Iran. Si trattava di un pessimo accordo, che di fatto non impediva agli iraniani di marciare verso la bomba atomica e di sviluppare i missili balistici per trasportarla. Ma dopo essere uscito dall’accordo, Trump non ha fatto nulla di efficace per fermare l’Iran. Lo stesso atteggiamento aveva tenuto con la Corea del Nord, evitando contenziosi, ma lasciando mano libera allo sviluppo nucleare di quella opaca dittatura.
Al suo attivo, the Donald può solo rivendicare gli Accordi di Abramo in Medio Oriente, con i quali quattro paesi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco) hanno iniziato la normalizzazione dei rapporti con Israele: il giudizio resta sospeso, perché non è ancora chiaro quanto quegli accordi siano stati efficaci e quanto abbiano effettivamente rafforzato la sicurezza dello stato ebraico. Gli eventi successivi fanno dubitare, anche se manca la controprova. Tra l’altro, a questo proposito, si dice che Netanyahu esulti per la vittoria di Trump: avrà i suoi buoni motivi. Ma non è detto che il sostegno ad Israele migliori rispetto alla presidenza precedente.
Biden ha rilasciato molte dichiarazioni in apparente contrasto con il governo di Gerusalemme, ma non ha fatto mai mancare il sostegno economico e militare. Oltre alla forniture militari, ha mandato le portaerei nel Mar Rosso e nel Mediterraneo, ha bombardato le basi degli Houthi. Ha schierato le difese antimissile americane contro gli attacchi iraniani, ha fornito il sistema antimissile THAAD con personale americano sul posto per gestirlo. Se Trump mantenesse le promesse, “non sparare un colpo e interessarsi solo dell’America”, ad Israele resterebbero forse buone parole, ma meno aiuti concreti.
Eppure, sembra che le mancate promesse, o i sostanziali fallimenti, non abbiano scalfito la fiducia dei “suoi” elettori. Anzi si è arrivati al paradosso opposto: il fatto che non mantenga le promesse è un motivo di fiducia in più. Non è un dato, ma un segnale sì: nel corso della Maratona Mentana, la trasmissione televisiva dedicata ai risultati in diretta dell’election day USA, è stato intervistato un italiano, ora cittadino ed elettore americano, che ha dichiarato di aver votato per Trump. L’intervistatore gli ha fatto notare che i promessi dazi americani sulle importazioni avrebbero colpito l’Europa e in particolare l’Italia, grande esportatore in quel paese. L’elettore ha risposto: “Lo dice in compagna elettorale, ma poi non lo farà”. Questa è una dichiarazione di amore puro, un sentimento che non ha bisogno di motivazioni.
La vittoria di Trump è la vittoria del populismo, quella cosa in cui il leader carismatico, un personaggio che condivide i difetti della gente comune, ma è più abile degli altri suoi simili, stabilisce un rapporto diretto con gli elettori, saltando tutte le mediazioni del sistema rappresentativo e, una volta plebiscitato dal popolo, ne interpreta la volontà in modo insindacabile.
Comunque ora Donald Trump, classe 1946, è il 47° Presidente degli Stati Uniti. I Leader di tutti i paesi del mondo dovranno confrontarsi con lui, con il rispetto dovuto alla maggiore potenza mondiale, per quanto acciaccata. Vale la regola enunciata da Draghi in una celebre conferenza stampa. Con i dittatori bisogna rapportarsi per quanto è necessario per gli interessi del proprio paese (e dell’Europa); all’epoca si riferiva ad Erdogan. A scanso di equivoci, Trump non è un dittatore, non solo perché ha vinto libere elezioni, ma perché l’America è una democrazia turbolenta, ma vitale e solida, come non si stanca di ripetere Federico Rampini. Nella quale esiste il bilanciamento dei poteri, con un Parlamento fortissimo e competenze essenziali in capo ai singoli stati dell’Unione. Tanto che forse il Presidente degli Stati Uniti incide di più sulla politica estera, cioè su di noi, che sulla politica interna, cioè sulla vita quotidiana dei suoi cittadini.
Solo i fatti ci diranno gli effettivi sviluppi futuri. Per ora, resta una considerazione. Per dirla (un po’ semplicisticamente) con Aristotele, le concrete politiche, che deriveranno da tanti fattori e condizionamenti, saranno dei meri accidenti, la sostanza o essenza del personaggio resta la conegrina e l’assalto a Capitol Hill.
Molti liberali italiani tendono a tralasciare la sostanza e a concentrarsi sugli accidenti, ritenendo i fatti più importanti delle parole. E’ così. Ma se fatti e parole divergono, attenzione alle parole, e ai gesti simbolici, che esprimono l’anima dei personaggi. Un altro esempio è Milei. Non so che politiche stia facendo il Presidente argentino, ma resta quello della motosega (accesa) agitata ai comizi. Al dunque, sarebbe l’anima a uscire fuori e determinare le scelte, non il realismo opportunista dei tempi ordinari.
Resta il fatto che questi personaggi riscuotono il consenso degli elettori, e sembra lo riscuotano proprio per quegli aspetti che ad un esame razionale lasciano più perplessi. Questo apre la strada ad un’ulteriore riflessione: diamo per scontato che la ragione guidi il mondo; bene o male, con qualche momento di sonno della ragione, così è stato dal ‘700 in poi. Da quando gli illuministi hanno sostituito il primato della ragione a quello della fede, la religione è diventata un fatto privato, interiore, mentre la società è stata affidata alle scelte razionali.
Non essendoci più una fonte superiore a cui obbedire, si è sviluppata la democrazia, cioè il potere del popolo esercitato attraverso complessi meccanismi di bilanciamento ed equilibrio. A ben vedere, però, i sentimenti più forti, l’amore e l’odio, non hanno basi razionali: la piega che sta prendendo il mondo sembra suggerire che la natura voglia riprendere il sopravvento. Mentre l’umanità ha dominato la natura con le cose, sviluppando l’uso del fuoco fino a renderci indipendenti dalle stagioni e dall’alternanza buio/luce, la natura ci sta attaccando al cuore, facendo di nuovo prevalere istinti e sentimenti sugli algoritmi dell’intelligenza, umana e artificiale. In natura la democrazia non esiste, esiste il capobranco, che domina il branco con la forza e il carisma.
Nel dibattito televisivo tra Donald Trump e Kamala Harris, molti commentatori (razionali) avevano visto una prevalenza di Harris, più riflessiva, più argomentativa, mentre il tycoon si lasciava andare a qualche uscita delle sue. Un particolare, però, colpiva: Trump guardava sempre in camera, rivolgendosi al popolo, ignorando la sua avversaria; Harris a volte si girava verso di lui, come a saggiarne le reazioni. Un segno di insicurezza e di sudditanza psicologica. Era capitata la stessa cosa nel confronto per la nomination democratica tra Obama e Hillary Clinton nel 2008. Sarà un caso, ma il risultato è stato lo stesso.
Davvero il ciclo della democrazia razionale sta finendo, e stiamo ritornando agli istinti primordiali?[1]
Vorrei vivere fino a 120 anni (si fa per dire) per vedere come va a finire. Nel frattempo, per restare aggrappati alla politica razionale, si può notare che probabilmente non esistono buoni motivi per votare la destra, ma certamente esistono ottimi motivi per non votare la sinistra. I democratici americani, come quelli italiani, e le omologhe forze europee, hanno perso il collegamento con la realtà, e hanno regalato le principali bandiere alla destra. Le nostre società soffrono di insicurezza, di incapacità di gestire l’immigrazione, di crisi dello sviluppo che spaventa le classi medie, timorose di perdere il benessere acquisito nei decenni precedenti. La sinistra tende a negare i problemi, o a ignorarli, rifugiandosi nella tutela delle minoranze, non limitandosi a proteggerle dalla discriminazione, ma facendo delle loro richieste l’unico valore a cui spirarsi e il principale obiettivo dell’azione politica.
Molti cittadini avvertono istintivamente questo scollamento dalle cose che contano nella vita delle persone: è vero che la destra non offre o realizza soluzioni, ma almeno parla dei problemi. Se la sinistra democratica vuole ritornare a contare, dovrà ridefinire il proprio perimetro, evitando tutti gli estremismi e proponendo soluzioni e non negazioni ai problemi della sicurezza dei cittadini, della gestione della immigrazione e della effettiva integrazione degli immigrati, di una politica economica e fiscale capace di aumentare la produttività del lavoro e attraverso di essa migliorare il livello dei salari. Dovrà anche essere capace di una definitiva collocazione europea ed atlantica, occidentale nel senso completo del termine. Con uno straordinario impegno per spiegare il come raggiungere gli obiettivi. Alla destra bastano gli slogan, alla sinistra democratica è chiesto molto di più per recuperare la credibilità perduta.
Note
[1]Sul tema si rimanda a Sergio Cipri in https://www.laportadivetro.com/post/il-sequestro-dell-amigdala-ovvero-il-ritorno-del-nostro-cervello-primordiale
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