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L’Etiopia, una polveriera per il Corno d’Africa

di Germana Tappero Merlo |

Uno strano destino di guerra sembra travolgere l’Etiopia e il suo Primo Ministro Ahmed Alì Abiy, Premio Nobel per la Pace nel 2019, per aver posto fine ad un conflitto congelato, lungo vent’anni, con la vicina Eritrea. Con i suoi 110 milioni di abitanti – divisi in 80 fra etnie e nazionalità differenti – è il secondo Paese più popoloso d’Africa. Con un tasso di crescita (ante pandemia) del 10% annuo è destinato a diventare la prima potenza economica dell’Africa orientale per via delle sue infrastrutture per la fornitura di energia elettrica. Un risultato derivato anche dalla mega diga GERD, “una gloriosa battaglia vinta contro la povertà”, recita lo slogan governativo. Ma di fatto, l’Etiopia sta rovinosamente franando verso una guerra civile. Una “guerra inaspettata”, l’avrebbe definita Abiy, anche se è difficile credergli, con tutte le molteplici premesse evidenti già da parecchio tempo, tanto che, per alcuni osservatori, ciò che sta avvenendo ora in quel Paese è come ‘guardare al rallentatore un treno schiantarsi’. Il rischio, non così remoto, è che l’instabilità e il confronto armato interno, già ora molto sanguinario, dall’Etiopia si allarghino al resto di quella che è una delle regioni più strategiche al mondo, ossia il Corno d’Africa. Perché da lì, allo Yemen e alla Penisola Arabica il passo è breve. Attentati e stragi, l’ultima è costata la morte di 35 persone

Come tutti i conflitti africani dell’era post-coloniale, anche ora in quel Paese l’oggetto del contendere fra nemici locali, per lo più etnie, sono quelle aree divise da confini imposti loro senza che sia stata rispettata la loro reale, antica competenza di possesso di quella zona che, per quelle genti, significa vedersi sottrarre terreni da economia semplice (agricoltura e pastorizia) sino a più importanti ricchezze (petrolio, acque, uranio, terre rare e molto, molto altro), in grado queste ultime di attrarre, però, ingordi interessi anche esterni, da cui instabilità e conflitti a diverso grado di intensità, con un ricorso al terrore come tattica privilegiata. Sono tutti conflitti intra-stato che stavano incombendo da decenni, ma che ora la liberalizzazione di nuovi spazi politici e sociali, con anche il moltiplicarsi di protagonisti di peso nelle relazioni internazionali, ha fatto emergere numerosi soggetti che ne diventano portavoce. Da qui le guerre per procura per potenze regionali e mondiali, di cui quelle più note nel Vicino Oriente e Asia centrale, ancora un po’ eclissate quelle in Africa. Ma, appunto, le premesse a ciò che sta accadendo in Etiopia. Sino ad ora si è trattato per lo più di violente frizioni interne fra diversi gruppi etnici, a colpi di machete e attentati terroristici, contro la popolazione avversaria inerme, per questioni di ‘confine’ oppure per rivendicare l’autonomia dal governo centrale, a sua volta accusato di non garantire la sicurezza della sua gente da gruppi armati riferenti alle diverse etnie. Da qui l’aumento del malcontento popolare che replica con altri attacchi, altre stragi fra civili, anche di manifestanti alle legittime proteste di piazza contro il governo. Stragi a cui non si sa dare paternità, come quella di 500 lavoratori uccisi a colpi di machete, lungo il confine con il Sudan. Censura (anche di internet) e propaganda alzano fumi su indagini e colpevolezze. E Abiy risponde, non con il dialogo, come si converrebbe ad un accreditato mediatore, ma con il pugno duro delle sue forze di sicurezza. In una sola di quelle proteste, a giugno, vi sono stati oltre 150 morti fra i manifestanti, con strascichi di evidenti violazioni dei diritti civili, fra esecuzioni extragiudiziarie e detenzioni arbitrarie, già ampiamente documentate da organizzazioni umanitarie. Ma non mancano attriti violenti fra gruppi etnici etiopi con altri, quelli di Paesi vicini, come Somalia e Sudan, da cui l’ultima strage con 35 vittime falciate su un autobus di linea in una regione occidentale, al confine con il Sudan. In sostanza, ciò che sta avvenendo ora in Etiopia è un conflitto intra-stato dalle potenzialità regionali dirompenti. Dai rischi di guerra esterna a quelli di guerra civile

Anche perché gli oppositori più agguerriti di Abiy sanno perfettamente dove colpirlo. Il nuovo e più importante scontro interno etiope è infatti fra le forze armate governative e quelle dislocate nella regione del Tigrè, a nord, proprio al confine con l’Eritrea. Tutte compatte attorno al Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino (FLPT), queste forze armate regolari etiopi sostengono le pretese di autonomia del Tigrè da Addis Abeba. Non uno sparuto gruppo armato, ma si ipotizzano 250mila unità, fra regolari e milizie, dell’intero Comando Settentrionale Etiope. Combattenti per tradizione, temprati un tempo dall’opposizione armata al vecchio regime marxista Derg (1991) e ora da anni e anni di guerra contro l’Eritrea. Una forza militare che è ora in mano all’etnia tigrina che per oltre trent’anni ha governato l’Etiopia, soppiantata proprio da Ahmed Abiy nel 2018. Una forza che ‘non si deve sopravvalutare’ avrebbe affermato Abiy, ma che di fatto temendola, l’ha bombardata con attacchi aerei mirati. La resistenza armata del Tigrè si basa su accuse di brogli alle ultime elezioni (continuamente posticipate per colpa della pandemia), con cui il premier Abiy ha visto rinnovare il suo mandato, che costoro hanno rigettato, rispondendo con altre elezioni, indipendenti ma illegittime secondo il governo centrale. Lo scontro si è fatto via via così cruento da trasformarsi in conflitto aperto, con una singolarità strategica rispetto a quanto ci si poteva aspettare: la risposta tigrina agli attacchi aerei del governo centrale è stato il lancio di razzi, in questi giorni, verso l’aeroporto e sedi di istituzioni governative dell’eritrea Asmara. È voler cercare la frizione con il dittatore eritreo Ysayas Afewerki. Significa colpire al cuore il successo di Abiy come pacificatore. E’ voler mortificare l’ex nemico e ora nuovo alleato che, voci sempre più frequenti, vogliono che Abiy incontri sovente allo scopo di visitare installazioni militari da replicare poi nel suo Paese. Tutto ciò è inconcepibile per il FLPT che da sempre considera Afewerki il più acerrimo nemico della terra d’Etiopia. Da qui, l’escalation del confronto fra forze tigrine e governo centrale etiope che, nel frattempo, richiama parte del suo contingente impegnato nell’operazione di peacekeeping lungo i confini con la Somalia contro il rischio jihadista degli al-Shabaab e non esita, in terra etiope, a utilizzare milizie di altre etnie (Amhara) e forze paramilitari, come i Liyu dell’ Oromia. Ci sono tutti i presupposti per una guerra civile, anche se Abiy la definisce “una mera operazione di polizia” contro una banda di ‘criminali’ e ‘terroristi’. Così facendo nega l’evidenza di centinaia di morti fra i civili soprattutto tigrini, da cui l’accusa ad Abiy, da osservatori internazionali, di vera e propria pulizia etnica. Da quell’inferno di violenze alla ricerca della salvezza il passo è breve, seppur carico di disperazione e incertezze. La fuga di migliaia di disperati ha contato sino ad ora circa 10mila persone, per lo più bambini, verso il Sudan, ma è destinata a crescere, anche per via degli effetti della pandemia e della devastazione di raccolti da parte di un’eccezionale ondata di locuste dal deserto. Sul Primo Ministro Ahmed Alì Abiy l’ombra minacciosa della Jihad

Ma i guai per Abiy arrivano anche da altrove. È fallito da pochi giorni l’ennesimo tavolo di trattative con l’Egitto e il Sudan per la questione del riempimento, da parte etiope, della diga GERD sul Nilo Azzurro1, considerato per quei Paesi a valle un durissimo colpo alle loro economie. E se il dialogo fallisce, venti di guerra soffiano, come sempre accade in quella parte di Africa. Anche se non concreta, al momento, la minaccia di un ricorso alle armi passa attraverso il dislocamento di forze aeree e d’élite Saiqa egiziane nella Marwa Air Base in Sudan, allo scopo ufficiale di esercitazioni congiunte (almeno sino a fine novembre) fra i due Paesi. In partica, è ribadire che la valenza strategica di quelle acque vale l’azzardo di un confronto armato o, quanto meno, mostrare i muscoli ad Abiy. Perché non profittarne, visto il momento di estrema debolezza di quel Paese? Il quadro si complica e gli analisti già parlano di ‘rischio balcanizzazione’ di quella porzione di Africa orientale, ossia una frammentazione territoriale fra etnie che va contro la visione di unità nazionale ambita da Abiy, per la quale ha fatto pace all’esterno, ma che si ritrova ora a fare una guerra al suo interno per un etno-nazionalismo, ora rivendicato dalle forze del Tigrè, ma che sembra imporsi come modello in gran parte del mondo contemporaneo, dall’Africa al Medio Oriente. Ciò significa instabilità politica, rischio di guerre e un mancato contenimento del terrorismo, soprattutto quello jihadista della vicina Somalia, anche perché la popolazione etiope cristiana ortodossa sarebbe un obiettivo decisamente ambito per i combattenti qaedisti di al-Shabaab. Non rimane che la fuga, la ricerca di una salvezza nei Paesi vicini: ondate di paura e di esseri umani che potrebbero riversarsi lungo il Corno d’Africa così come sulle sponde africane del Mediterraneo. Almeno così recitano gli ultimi rapporti di agenzie, anche di intelligence, internazionali. Prenderne coscienza in tempo è un dovere collettivo. Trovare una soluzione di dialogo è un’urgenza che non ammette esitazioni, per non trovarsi poi a sdegnarsi per i morti dei naufragi nelle acque dei nostri mari e a chiedersi ignorantemente da quale guerra quei disperati stessero scappando. _______

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