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Impoverimento della lingua e decadenza della società

Aggiornamento: 3 ago 2022


di Chiara Laura Riccardo




Nelle “Confessioni del Cavaliere d’Industria Felix Krull” di Thomas Mann, premio Nobel per la letteratura nel 1929, troviamo scritto: “Son veramente innamorato di questa bellissima lingua, la più bella del mondo. Ho bisogno soltanto di aprire la mia bocca e involontariamente diventa il fonte di tutta l’armonia di questo idioma celeste. Sì, caro signore per me non c’è dubbio che gli angeli parlano italiano. Impossibile immaginare che queste creature del cielo si servano di una lingua meno musicale”. L’italiano da sempre considerata la lingua degli angeli, con il suo essere melodica e armoniosa, oggi continua ad essere la quarta lingua più studiata nel mondo.


Fino ad un decennio fa le nuove generazione crescevano con ben chiaro il fatto che il “parlare bene” fosse sia un diritto che un dovere. Un diritto per la propria libertà intellettuale e un dovere per il potere sociale che il linguaggio e le parole hanno nella nostra quotidianità: le neuroscienze ci hanno infatti dimostrato che le parole che pronunciamo evocano immagini mentali e attivano processi chimico-ormonali che influenzano lo stato d’animo e il comportamento delle persone.


Dal latino al volgare e a Dante Alighieri

L’italiano è una lingua caratterizzata da un ricco vocabolario, costellato da un gran numero di espressioni idiomatiche e sfumature semantiche, tanto da essere una delle poche lingue a presentare in un dizionario oltre 250.000 voci. Oggi, purtroppo, di queste 250.000 voci solo 3.000 stanno sopravvivendo tra i più giovani e i meno giovani, in una cornice dove lo stato di salute della nostra lingua parlata e scritta sta diventando sempre più precario.

Di fatto, è in corso una tragedia culturale silenziosa, per nulla percepita dai cittadini e neppure dagli organi istituzionali di stampa che, al contrario, concedono libero spazio di cronaca a quelle distorsioni linguistiche che, in questi tempi, si stanno diffondendo tra i giovani. Giovani, in cammino verso un progressivo impoverimento del loro linguaggio. Un linguaggio che diviene sempre più rapido e semplificato, fatto prevalentemente di slogan a prova di hashtag e tweet, completamente privo di quelle belle sfumature di complessità che caratterizzano la lingua italiana e che lo hanno reso unico nel mondo.

La lingua italiana che conosciamo oggi è il risultato di un lungo processo che ebbe inizio alla fine della caduta dell’Impero Romano e che vide il suo periodo di maggior evoluzione dal punto di vista storico nel XIII secolo, quando il dialetto toscano, utilizzato da Dante Alighieri, Boccaccio e Petrarca, s'iniziò a diffondere per divenire poi la base dell’italiano moderno.

La lingua italiana si è evoluta seguendo, nella storia, i movimenti di ricostruzione sociale e politica. Dal 1948, anno di fondazione della Costituzione Italiana che sancì il diritto per tutti i cittadini all’educazione scolastica di base, iniziò il processo di alfabetizzazione del paese. In quegli anni infatti, meno del 20% della popolazione parlava un italiano fluente. Nella vita di tutti i giorni, erano i dialetti ad essere utilizzati come lingua parlata e l’accesso allo studio, nonostante il diritto costituzionale, restava ancora riservato alle famiglie benestanti.

Con l’avvento della televisione e grazie alle trasmissioni RAI degli anni 60, dai corsi del mattino propedeutici all'introduzione della scuola media unica alla mitica “Non è mai troppo tardi”, presentata dal maestro Alberto Manzi, in molte persone crebbe il livello di acculturazione e l’uso della lingua italiana s'accrebbe soprattutto nelle classi sociali meno abbienti (si stima che circa un milione e mezzo di italiani ottennero il certificato di educazione primaria).


Dagli anglicismi alle nuove tendenze


Uscendo da questa cornice storica, arriviamo ai giorni nostri e osserviamo come numerose parole utilizzate correntemente abbiano un’origine straniera, ma non si tratta di parole introdotte per arricchire il nostro vocabolario, bensì per impoverirlo. La lingua non è solo ciò che ci permette di comunicare, ma è lo strumento con cui ragionare: ridurre la conoscenza della lingua depaupera la possibilità di formulare nuovi concetti e ciò non giova al progresso civile e culturale.

E tra un anglicismo e l’altro, oggi l’attenzione si focalizza sull’ennesima distorsione della lingua italiana che negli ultimi mesi sta spopolando tra i giovanissimi. Si tratta del parlare in “corsivo”. Ci si domanderà: ma il corsivo non è uno stile di carattere contraddistinto da una leggera inclinazione delle lettere verso destra? Oggi non più, o meglio, non solo. Il “corsivo” è diventato un metodo di pronuncia delle parole dove i finali delle frasi si allungano e i toni delle sillabe cambiano radicalmente per ottenere un tono di voce acuto, storpiando e allungando le vocali. Qualcuno, per rendere intellegibile tale fenomeno, lo descrive come una sorta di imitazione esasperata della parlata milanese.

Questa nuova “tendenza”, come qualcuno la chiama, è nata per opera di una giovanissima influencer di TikTok, il social degli under 25, che ha pubblicato nei suoi post anche delle video-guide per esercitarsi nel parlato corsivo, contando quasi tre milioni di visualizzazioni. Oggi la ragazza, conosciuta come “la prof del corsivo”, vanta oltre ottocentomila followers.

Parlare in corsivo è di fatto diventata la nuova tendenza della cosiddetta Generazione Z, quella dei nati tra la fine degli anni '90 e i primi 10 anni del XXI secolo, che sta diffondendo questo trend anche su altri social network frequentati da numerosi vip del mondo dello spettacolo che mostrano di prendere “lezioni” di corsivo.

Facendo una rapida ricerca sulla rete per capire che cosa rappresenta per i giovani questo nuovo “linguaggio”, si legge come questo permetta loro di crearsi una cultura e dei gruppi di “amici” con regole proprie e accessibili solo agli “addetti ai lavori”. Trovano divertente storpiare le parole e alterarne la pronuncia e facendolo si sentono originali e si identificano con un gruppo. Insomma questo fenomeno seppur appena emerso, sottolinea già in modo chiaro come la scrittura e la lettura stiano cedendo il posto alla cultura audio-visiva.


Grammatica in caduta libera

A dimostrazione di ciò vi sono i dati dei report nazionali relativi alla capacità di lettura e comprensione di testi da parte degli italiani: il 46% dei cittadini ha difficoltà nel reperire un’informazione in un testo breve e semplice come un articolo di giornale. Non è raro sentir dire che una volta, oltre che in famiglia, era soprattutto a scuola che i giovani imparavano a scrivere e parlare in un corretto italiano; una scuola dove questa era considerata una delle priorità.

Oggi invece troviamo, negli uffici delle istituzioni, continui appelli di docenti, anche universitari, che si dicono preoccupati per la grammatica sempre più scadente dei loro studenti. A questi appelli, gli insegnanti della scuola italiana rispondono sostenendo di non avere più il tempo per insegnare come vorrebbero, occupati ormai a dover gestire situazioni comportamentali complesse, a porre rimedio a errori educativi della famiglia e ad aiutare i genitori in difficoltà perché non riescono a dialogare con i propri figli.

Un dato è certo: la maggior parte dei giovani non sa più scrivere perché non sa più parlare un corretto italiano. Quelle che un tempo erano le conoscenze grammaticali e sintattiche di base, che guidavano verso il buon parlare e scrivere, non sono più note e il tempo viene più frequentemente impiegato per apprendimento di altre lingue, mettendo in secondo piano quella madre.

L’italiano dunque, la nostra lingua madre, viene messo in secondo piano: basti osservare che lo stesso Ministero dell’Istruzione nei bandi per progetti culturali ed educativi di interesse nazionale chiede sempre che i progetti vengano scritti obbligatoriamente in inglese, mentre la versione italiana è solo facoltativa. Un messaggio, questo, neanche troppo velato, di messa in secondo piano della lingua italiana, lingua che dovrebbe rimanere centrale nell’ambito dell’educazione, della formazione e della ricerca sul territorio nazionale.

E allora urge riflettere su quanto sta accadendo, magari facendosi “ispirare” da quanto affermato dal professor Jeffrey Earp, assegnista di ricerca presso Istituto di Tecnologie Educative del CNR, secondo la cui impressione gli italiani usano l’inglese prevalentemente “per mostrarsi colti, moderni o internazionali”.

Vogliamo davvero continuare a lasciare spazio a nuove distorsioni linguistiche, a dare visibilità e celebrità a chi le propone, ad investire nelle lingue straniere a discapito della nostra lingua e a portare i nostri giovani ad assorbire tutto ciò passivamente e acriticamente? Al lettore la riflessione.

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