"Il movimento pacifista non è un lusso in tempo di pace"
- Savino Pezzotta
- 20 ore fa
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di Savino Pezzotta
Domani, 20 dicembre, dalle 11 alle 12 in piazza Carignano a Torino, 199a presenza di Pace, presidio contro le guerre e la proliferazione nucleare promosso dal Coordinamento AGiTe.

A quasi tre anni dall’invasione russa dell’Ucraina, una domanda continua a inquietarmi e riguarda il ruolo del pacifismo e come e se deve difendersi un paese aggredito. Non penso al pacifismo come al custode di un No astratto e caricaturale, ma come alimentatore di una tradizione critica, sociale, politica, sindacale e storica capace di interrogare il potere, la violenza e le conseguenze di lungo periodo delle scelte militari.
Con l’inizio della guerra, il pacifismo è stato rapidamente archiviato come ingenuo, moralistico, inadatto ai “tempi duri della storia”. Anche voci che in passato avevano mostrato sensibilità pacifiste hanno finito per sostenere la necessità della risposta armata, rafforzando l’idea che la guerra fosse non solo inevitabile, ma anche l’unica opzione razionale. In questo clima, il pacifismo è stato spesso liquidato come una posizione assoluta e dogmatica: un “no” pregiudiziale a qualsiasi uso della forza.
Questa rappresentazione è però profondamente distorta. La tradizione pacifista è molto più articolata. Alcuni pacifisti rifiutano la guerra perché ritengono l’uccisione sempre moralmente inaccettabile; altri muovono da argomentazioni diverse e altrettanto robuste: la fallibilità del giudizio umano, l’impossibilità – nelle guerre contemporanee – di distinguere davvero tra combattenti e civili, l’inefficacia storica della guerra nel produrre una pace duratura. Altri ancora riconoscono che le cosiddette “guerre giuste” possano essere pensabili in teoria, ma sostengono che nella realtà concreta i criteri per definirle tali vengano quasi sempre traditi.
In questa prospettiva, non è inconcepibile che un pacifista possa ritenere una limitata risposta militare compatibile con una critica pacifista, a condizioni molto stringenti: che la violenza sia davvero l’ultima risorsa, che sia rigorosamente contenuta, che venga costantemente rivalutata nella sua necessità e, soprattutto, che i suoi effetti politici, sociali e culturali non vengano rimossi dal discorso pubblico. Il pacifismo, in altre parole, non coincide con la resa, ma con una vigilanza critica sulla guerra come strumento politico.
Ciò che invece ha dominato la scena dopo il 2022 è stata una ri-legittimazione quasi automatica della guerra come opzione normale, necessaria ed efficace. Questa postura ha avuto conseguenze ben oltre il fronte ucraino. Politicamente, economicamente e culturalmente, l’Europa ha conosciuto una nuova accelerazione della militarizzazione: aumento delle spese militari, riarmo diffuso, centralità crescente dell’industria bellica, linguaggio pubblico sempre più improntato alla logica dello scontro. Una dinamica che, lungi dal ridurre i rischi futuri, li amplifica.
Qualunque sia l’esito militare del conflitto, gli scenari che si profilano sono tutt’altro che rassicuranti. Anche un risultato “ibrido”, che oggi sembra essere l’unico possibile, fondato su linee di demarcazione instabili, lascerebbe in eredità un’Europa più armata, più diffidente e meno capace di immaginare una coesistenza. È proprio qui che la critica pacifista mostra la sua attualità.
Essa invita a interrogarsi su un’altra possibilità, che avevamo avanzato ma che è rimasta o lasciata fuori dal dibattito: la resistenza civile nonviolenta su larga scala. Le ricerche sulle campagne di disobbedienza civile mostrano che, in determinate condizioni, esse possono erodere il consenso dei regimi aggressori, favorire spostamenti di lealtà e indebolire dall’interno il potere che sostiene la guerra. Una resistenza di massa, radicata nella società, avrebbe potuto rendere più difficile la costruzione dell’immagine del “nemico”, sia tra i soldati russi sia nell’opinione pubblica interna.
Un simile percorso non avrebbe garantito il successo, così come non lo garantisce quello militare. Ma pone una domanda cruciale: quale fallimento sarebbe stato meno distruttivo? Quale strada lascerebbe dietro di sé società meno brutalizzate, meno militarizzate, più capaci di continuare a resistere senza riprodurre all’infinito la logica della guerra? La nonviolenza opera su un piano diverso: non mira a distruggere l’avversario, ma a trasformare le condizioni che rendono possibile il conflitto, agendo sulle mentalità, sulle alleanze, sulle legittimazioni simboliche.
Oggi, quando il conflitto è ormai profondamente radicato, non è realistico immaginare un’immediata inversione di rotta. Ma non è mai troppo tardi per affiancare alla risposta militare un investimento serio nella difesa civile nonviolenta, nella formazione dei cittadini europei, nella diffusione di strumenti di resistenza che non alimentino ulteriormente la spirale bellica. Continuare a puntare esclusivamente sulla deterrenza e sulla logica delle grandi potenze significa accettare il rischio di una profezia che si autoavvera: prepararsi alla guerra rende la guerra più probabile.
Il pacifismo, lungi dall’essere un lusso per tempi di pace, è più necessario proprio quando “i tamburi di guerra” diventano più forti. Non perché offra soluzioni facili o immediate, ma perché costringe a mettere in discussione l’idea – mai davvero dimostrata – che la violenza sia naturale, efficace e risolutiva. Analizzare la guerra in Ucraina attraverso questa lente non significa riscrivere il passato, ma interrogare il futuro: quali conflitti stiamo preparando oggi con le scelte che facciamo? E quale Europa stiamo costruendo, normalizzando la guerra come orizzonte permanente?
Forse la domanda giusta non è se il pacifismo sia realistico, ma se non sia proprio il militarismo dominante a rivelarsi, ancora una volta, l’idealismo più tragico.











































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