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Il dilemma del linguaggio tra la guerra e la pace


diTiziana Bonomo



Venerdì, 1° aprile: è il trentasettesimo giorno di guerra in Ucraina. Il fragore delle immagini prosegue incessantemente: case bombardate, casermoni in fiamme, soldati e civili morti, bambini e madri sopravvissuti allo scoppio di una bomba, anziani accompagnati sotto le macerie di un ponte, pavimentazioni sbriciolate dalla furia dei bombardamenti, feriti su barelle improvvisate, postazioni di emergenza nelle metropolitane, nei sotterranei, ragazze dai capelli colorati in assetto di guerra, giovani che costruiscono bottiglie di molotov, militari carri armati macchine esplose, cieli dal sapore dell’apocalisse, luci di distruzione nelle notti che incutono gelo e freddo.

Con minore intensità si susseguono immagini sulla pace che rimandano alle icone classiche dei colori della bandiera della Pace, delle colombe, dei disegni di piante da cui crescono speranza armonia pace fratellanza ma anche immagini che chiaramente esprimono la pace in Ucraina.


Mi pongo diverse domande su quanto il linguaggio della fotografia ci è di aiuto a comprendere la guerra ma soprattutto a districarci nei messaggi che potrebbero indurci alla pace. Sono proprio quelle fotografie che esprimono la furia devastante della violenza ad indurci a pensare alla pace o viceversa? In questo momento frammenti di realtà documentano alcune situazioni della guerra più che mai vicina a noi così come richiede il fotogiornalismo. È proprio su questo tema cioè quello di dover documentare la realtà che autori stimati hanno dedicato pagine e pagine di analisi per mettere a fuoco il concetto di realtà.


Uğur Gallenkuş insiste su “la fotografia ha la dubbia fama di essere la più realistica, e quindi la più superficiale, delle arti mimetiche". Ma sempre la Sontag sulle pretese morali avanzate dalla fotografia chiede “Ma che cos’è l’umanità? È una qualità che hanno in comune le cose quando le vediamo in fotografia” e continua con “la fotografia non è meno riduttiva quando fa della cronaca di quando rivela belle forme. Le fotografie vengono spesso citate come aiuto alla comprensione e alla tolleranza. Nel gergo umanistico, la loro suprema vocazione è quella di spiegare l’uomo all’uomo. Ma le fotografie non spiegano: constatano” e come ultima citazione dal suo libro Sulla fotografia realtà e immagine nella nostra società (Ed. Einaudi) “... il realismo fotografico può essere definito – e lo è sempre di più – non come ciò che realmente c’è, ma come ciò che io realmente percepisco”.


Il significato di queste citazioni sta nel capire come le immagini di guerra che oggi vediamo in continuazione, in prima pagina, sulla maggior parte dei giornali e in televisione, ci aiuta a capire quanto l’umanità ha bisogno di pace. E come rendere visivamente la Pace che non siano solamente icone stilizzate di simboli che hanno il semplice scopo di nascondere quanto impegno quanto pensiero sia necessario per costruirla. Allora quali immagini? A questo proposito il tentativo di alcuni autori che ritengo significativo citarli poiché ognuno con il proprio stile mette in evidenza il dilemma del linguaggio fotografico.


Michela Battaglia e Stefano De Luigi con il loro fantastico progetto artistico Babel [1] che coniuga le immagini estrapolate dalle riviste di propaganda Daesh a quelle della cartellonistica pubblicitaria a voler contrapporre la vita agiata a quella tormentata di innumerevoli persone. Anche Uğur Gallenkuş, fotografo turco, fa un tentativo – sempre con la tecnica del collage – di accostare immagini di guerra a quelle di vita quotidiana “in pace”, “senza guerra”.


Se è vero che la realtà è quella che io percepisco allora sento il bisogno di vedere la Pace negli occhi dei soldati, un carro armato che non esce dal deposito, la preghiera del Papa in un campo minato, la mano di un bambino morente verso il suo carnefice, l’ululare di un lupo in mezzo alle rovine, una minestra fumante accanto alle macerie della casa, una donna che cammina sulla spiaggia nel suono dei gabbiani. Se della guerra e del suo orrore forse iniziamo ad acquisire più consapevolezza, grazie al lavoro incessante di chi documenta e raccoglie testimonianze, per la Pace abbiamo ancora molta strada da fare per capire veramente che cosa è e quanto per essa l’Uomo è disposto a rinunciare.


[1] Babel è una riflessione visiva sull’uso della fotografia attraverso la pubblicità – fotografie dei manifesti della metropolitana di Parigi – e la propaganda – le immagini estrapolate dalle riviste online con finalità di propaganda e reclutamento: Daesh Dabiq, Dar al-Islam, Rumiyah. È un lavoro che cerca di coniugare messaggi contrastanti, in apparenza antitetici. Una raffigurazione della guerra perseguita con altri mezzi, combattuta su altri campi, tra un Occidente che accusa una perdita di identità e un fantomatico Califfato che propone valori radicali che stravolgono una delle religioni più importanti del mondo. Siamo osservatori neutrali o siamo ostaggi inconsapevoli? Babel nasce da questa domanda, dalla constatazione di essere gessetti colorati che scrivono incoscienti una storia. Individui impotenti, testimoni che, malgrado loro, attraversano un cambiamento epocale. Michela Battaglia (’82) e Stefano De Luigi (’64) partono da un omaggio a Mimmo Rotella e scelgono come punto di incontro un quadrato bianco dove, su un nuovo piano, si confrontano le loro diverse generazioni ed educazioni visive. Il risultato è una manipolazione digitale dove le stratificazioni di fotografie pubblicitarie e propagandistiche danno vita a nuove immagini che costringono a fermarsi.


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