I dieci anni di papa Francesco, un uomo in continuo dialogo con il mondo
di Luca Rolandi
Il 13 marzo del 2013, un cardinale venuto da molto lontano, Jorge Mario Bergoglio, argentino, nato a Buenos Aires da genitori italiani, gesuita, è stato eletto al soglio di Pietro, 266° Papa nella storia millenaria della Chiesa Cattolica. Primo Pontefice espressione del continente americano. Alcuni giorni dopo la sua elezione, disse in maniera ferma e inequivocabile la sua visione della Chiesa Cattolica, in coerenza della scelta del nome, Francesco, mai usato dai suoi predecessori, otto secoli dopo la morte del Santo, patrono d'Italia: "Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!». Parole che crearono i primi contraccolpi all'interno di quella Curia romana più incline al privilegio che alla giustizia sociale, causa anche delle dimissioni di Papa Benedetto XVI. Parole che non sono mai venute meno in questo decennio del suo magistero, un decennio turbolento in cui Papa Francesco ha saputo mostrare il meglio di sé come pastore di anime, mentre gli Stati hanno dato prova del peggio come conduttori di uomini.
La Porta di Vetro
Sono trascorsi dieci anni dalle storiche e rivoluzionarie dimissioni di Benedetto XVI e dall’elezione di papa Francesco, un decennio di cambiamenti d’epoca, parafrasando Bergoglio, con le guerre e la pandemia, l’epopea tragica migratoria e il pianeta in agonia. Un tempo che ha trasformato alla radice l’espressione più profonda dell’istituzione ecclesiastica cattolica.
C’è chi parla di nuova evangelizzazione. Chi di “nuova era” della Chiesa cattolica. Chi del ritorno al Concilio Vaticano II. Ancora, c’è chi dice che il Popolo di Dio, ha ripreso a dialogare con il mondo, in realtà ha trovato, grazie allo Spirito Santo e il coraggio degli uomini, un vescovo di Roma, che viene dalla fine del mondo. Certo, papa Francesco, nel suo pontificato, parola per altro caduta in disuso, come Santo padre, sta rivoluzionando a modo suo la teologia e la pastorale della comunità ecclesiale: i suoi gesti, le sue parole, e le sue decisioni in ordine a cambiamenti radicali nella struttura organizzativa della Chiesa fanno discutere chi non è d’accordo, e gioire chi questi cambiamenti li sognava da tempo. In un anno l’accelerazione nelle riforme, auspicata dal cardinale Martini, al quale Bergoglio non nega di ispirarsi, è stata avviata.
Ecclesia sempre reformanda è un dato vitale per comprendere come il pellegrinaggio dell’umanità verso il Regno è una costruzione continua. Il C8, gli otto cardinali scelti da Francesco per ridisegnare il volto della Curia, sono al lavoro ma è soprattutto il Papa ad aver modificato le modalità del suo magistero; la riforma dello Ior, la Banca Vaticana attraversata per decenni da opachi comportamenti dei suoi vertici, è ben più di un progetto, quasi una realtà. Francesco ha chiesto alla Cei, la Conferenza episcopale italiana, una riforma della sua organizzazione, oggi troppo elefantiaca e costruita più per un clero in contrapposizione con tutto quello che c’è “fuori” e quindi capace di mediare rendite di posizioni con la politica e i vescovi sono spaesati e hanno deciso di non decidere al momento. La riforma non tocca solo l’organizzazione interna della Cei ma va a incidere profondamente anche nei gangli della pastorale e dell’impegno missionario delle diocesi. Uno snellimento di esse, infatti, è previsto. Sono 226 in Italia: troppe agli occhi di Francesco e del nuovo segretario di stato Parolin. Sprechi inutili, soprattutto economici. Come inutile sembra essere il perpetrarsi di uno status ecclesiale forgiato però in tempi diversi dall’attuale.
Le sfide davanti alla Chiesa del Terzo millennio
Dopo dieci anni sono ancora profonde e lunghe le sfide che Francesco ha davanti a sé sono: una riforma interna della Chiesa, la sua missione nel mondo, il ruolo del ministero petrino. E se per la riforma interna, forse la più difficile da applicare, ha istituito una commissione apposita, per la nuova evangelizzazione e il ruolo del papa parlano le sue parole e i suoi gesti pieni di umanità. Bergoglio oggi 86enne forse non le vedrà.
È indubbio che l’evangelizzazione e la missionarietà dell’annuncio della Parola di Dio è il punto di svolta dell’attuale pontificato. Il mondo e i popoli hanno bisogno di speranza. La Chiesa universale come vorrà abbracciare questa speranza? Tenerezza, misericordia, perdono, attenzione alla sofferenza: sono questi i termini di un nuovo lessico della speranza dove credenti e non credenti possono abbeverarsi senza paura di perdere i propri riferimenti religiosi oppure sentirli troppo aggressivi.
Una missionarietà che torna a pescare slanci e sentimenti nella collegialità, nella comunione, nella sinodalità. Sono queste le parole chiavi per comprendere la riforma che papa Francesco vuole imprimere al governo della Chiesa. Una riforma che dovrà appoggiarsi a un apparato organizzativo limpido, trasparente, sobrio ma che trae linfa vitale dall’autorità petrina che è “costretta” a collaborare con le Chiese locali e con il laicato. Non un sommo pontefice che comanda, ma un Petrus che attua i consigli della grande Chiesa universale. In compagnia dei fratelli vescovi.
Il problema sorge in un contesto nel quale il recupero di credibilità del messaggio evangelico mediatico dalla Chiesa, Popolo di Dio, sia soprattutto realizzato da un uomo solo, Papa Francesco, e questo è un problema, soprattutto perché non è l’intendimento di Bergoglio. Nel magistero del papa argentino (in particolare nelle Omelie del mattino a Santa Marta) vi sono tratti di una rottura che finora sembra di non aver trovato sottolineati esplicitamente da altri. Il primo di questi elementi è nel linguaggio: attento alla comprensione della gente comune, avviata già nella prima omelia tenuta al collegio dei cardinali elettori. Non le grandi disquisizioni teologiche e dottrinali, ma la semplicità e l’essenzialità del messaggio evangelico.
Quale futuro per il Popolo di Dio?
Le immagini della chiesa come un ospedale da campo che cura le ferite dell’uomo e la realtà delle periferie geografiche e soprattutto umane come simbolo dell’incarnazione non sembrano dei richiami o dei desideri, ma il segno di un cristianesimo che vuole salvare l’uomo nella sua dimensione feriale, ordinaria, contrapponendosi ad una cultura del consumo, dell’oppressione e della violenza. Non solo la vita da salvaguardare dal suo principio e nella sua conclusione naturale, ma tutto ciò che sta nel mezzo, il compimento di donne e uomini nella loro libertà e dignità. Anche la periferia ha una visione parziale, indubbiamente. Ma essa, in genere, resta consapevole dei propri limiti. Non si prende eccessivamente sul serio. È disposta ad imparare dalle altre esperienze che la possono arricchire. Deve fare i conti con l’essenziale, quotidianamente. Non può permettersi il lusso del superfluo o della mondanità. Resta ancorata alla realtà, alle gioie e alle speranze, alle angosce ed alle paure che attraversano la sua quotidianità.
In periferia non si respira l’aria mefitica del centro, asfissiato da tanto turbinare su se stessi. Ci si sente ancora in relazione con la natura, con il Creato. Quindi, è possibile costruire e fare parte di una chiesa diversa. Una chiesa che è innanzitutto fatta di persone, ove la comunità diventa il centro e l’attenzione non è più posta sulla ritualità. Ove il tratto distintivo è la misericordia. Il sentire con il cuore, non a livello intellettuale, ma nella dimensione e a livello di chi è nell’angustia, nella pena, nel dolore, nella miseria. Sì, siamo di fronte ad un’altra rottura: al centro tornano la comunità, il popolo di Dio. Non la Curia, non le rubriche, non i paramenti, non i pur storici ed antichi ornamenti… La Chiesa cattolica che, per la prima volta, ha la percezione effettiva di essere diventata globale, ha di fronte la necessità di un nuovo Concilio, che inizia da un nuovo collegio cardinalizio sempre più ecumenico, nel senso di internazionale e non solo eurocentrico, con una componente italiana, tra i porporati, consona alla dimensione del paese e non solo legata alla tradizione e alla storia, dell’Italia sede della cattolicità dove risiede lo Stato e il vescovo di Roma.
Bergoglio nutre la necessità di confrontarsi con alcuni problemi contingenti, perché ha bisogno di ripensarsi come chiesa veramente cattolica, universale. Nelle tante periferie, in questi decenni, sono state elaborate altre teologie, che stanno dando i loro frutti, spesso in maniera inaspettata, ricca, varia. Anche se papa Francesco non indirà un concilio, esso si staglia ora all’orizzonte come necessaria prossima tappa per la Chiesa. Uno dei banchi di prova sui quali si misurerà la capacità di comprendere come sia cambiata, nel rapporto con le grandi sfide della modernità, il papato di Francesco sarà il Sinodo straordinario incentrato sulla realtà della famiglia, il tema dei divorziati e risposati, la loro partecipazione piena alla comunità e alla vita sacramentale. Su questi temi Bergoglio sta lavorando alacremente soprattutto sulle realtà di quei cattolici i cui primi matrimoni furono determinati da motivi di coercizione, ignoranza o immaturità sono rimasti in sala d'aspetto per molto tempo. Hanno a lungo sperato che le loro ferite potessero essere curate con “qualcosa di penitenziale” ed efficace (tuttavia non così oneroso come quell'intervento chirurgico arduo, impegnativo e complicato che è il processo di annullamento), in modo che sia loro che i loro figli potessero "tornare a casa".
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