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Haliva, le dimissioni e i fantasmi del suo fallimento

di Maurizio Jacopo Lami


"Bisogna saper andarsene, avere la fermezza di non ancorarsi senza uno scopo". Così con la consueta energia il generale Aharon Haliva, capo dell'intelligence militare israeliana, ha annunciato le proprie dimissioni, e l'abbandono definitivo di ogni ruolo nel servizio segreto. Dimissioni, va aggiunto subito, che erano state annunciate senza equivoci, già subito dopo la cruenta incursione di Hamas il 7 ottobre: "È ovvio che considero mio preciso dovere dare dimissioni irrevocabili ed abbandonare per sempre il servizio attivo, perché considero un dovere assoluto sia avere l'onestà intellettuale di riconoscere il fallimento del mio operato nel proteggere Israele, sia perché penso al di là delle eventuali mancanze, che occorra dare un segnale preciso di discontinuità, dopo un disastro di tali dimensioni. Io riconosco, e ne porterò il peso per tutta la vita, di non avere valutato in modo corretto i numerosi segnali che annunciavano la tempesta che si è ora abbattuta sul nostro popolo. Le terribili sofferenze inflitte da Hamas ai nostri fratelli e sorelle ebrei, lo spaventoso spettacolo della morte inflitta ai nostri bambini, tutte le altre sofferenze inflitte al nostro popolo che possono essere considerate senz'altro come un vero e proprio pogrom, un giorno nero".


Il "giorno nero" del 7 ottobre

Il concetto di "giorno nero" per Haliva riassume una ferita che non passerà mai: "non passa più giorno e notte che non ripensi a quel giorno nero. Lo porto come una macchia a cui ripenserò sempre". E ieri ha riassunto le meditazioni di questi mesi tremendi in cui ha lavorato disperatamente per recuperare il tempo qui (ma anche con eccessi, errori e vere e proprie accuse di "crimini di guerra " per l'incapacità di segnalare bersagli senza coinvolgere i civili) spiegando con grande amarezza che "la divisione di intelligence sotto il mio comando non è stata all'altezza del compito affidatogli".

Ora, con ogni probabilità, Haliva scriverà una marea di rapporti per spiegare (o meglio cercare di spiegare) come sia stato possibile che i servizi segreti forse più celebrati al mondo abbiano fallito così clamorosamente.

Dovrà raccontare per la parte che gli compete, perché in realtà a fallire sono stati davvero in tanti, praticamente tutti. Il primo della lista, l'uomo che ad oggi non è mai riuscito ad esprimere un'autocritica credibile (e anzi continua a cercare capri espiatori) è naturalmente Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano che fino ad un attimo prima della tragedia del 7 ottobre continuava a ripetere di avere tutto sotto controllo e che Hamas era sostanzialmente domata.


Netanyhau, campione nello scaricabarile

Nella sua visione l'organizzazione palestinese ormai era ripiegata su se stessa, preoccupata solo di risolvere le proprie questioni interne. Netanyahu e il suo governo, il più intransigente e intollerante che Israele abbia mai avuto, considerava i palestinesi come una massa inerte da sfruttare senza pietà. A dare tutta la misura dell'incapacità di autocritica di Netanyahu e del suo esecutivo basti rilevare che dopo sette mesi di guerra, 1400 israeliani uccisi, almeno 34.000 palestinesi morti, un crescendo di tensione al limite del conflitto con le nazioni vicine, dopo l'impressionante risorgere dell'antisemitismo in tutto il mondo, dopo tutta questa immane catastrofe che è sotto gli occhi di tutti, non vi è nessun progetto, fosse anche sbagliato, da proporre.

Netanyahu ha tra le tante colpe quella di aver passato nel 2023 la sua visione miope alle forze armate e ai servizi segreti israeliani che si sono infatti lasciati sorprendere dagli eventi. C'erano stati chiari segnali che Hamas stesse preparando qualcosa di grande, qualcosa di insolito. Molte donne soldato, incaricate della sorveglianza sul confine della Striscia di Gaza avevano segnalato a settembre che vedevano numerose stranezze, palestinesi che si avvicinavano alle barriere, "come per studiarle", che scattavano fotografie, che sembravano studiare i loro orari. Lo hanno messo per scritto, ripetuto fino allo stremo e le loro osservazioni erano le stesse di altri israeliani che avevano segnalato "cose strane", movimenti che sembravano preannunciare qualcosa di inatteso. Addirittura si parlava di commando palestinesi che si addestravano per attaccare la grande barriera.

Ma Netanyahu aveva richiesto di trascurare la Striscia di Gaza, di occuparsi della Cisgiordania, voleva il confronto duri lì per espandere i territori di Israele. E le forze armate e i servizi, come spesso accade nelle grandi svolte della Storia, hanno assecondato il suo errore, aggravandolo.

Il generale Haliva è stato fra quanti hanno assecondato Netanyahu, hanno spostato uomini e risorse in Cisgiordania e sul confine libanese, e praticamente (questa forse è l'aspetto più incredibile da raccontare) ha deciso che non c'era più bisogno di sorvegliare Hamas, considerata come un "orso domato".

Tanti in questi mesi hanno criticato la decisione di organizzare un rave a un passo dal confine con Gaza, un'iniziativa che ha permesso ad Hamas di uccidere e rapire moltissimi ragazze e ragazzi israeliani. Ma allora che cosa mai dire della decisione dei servizi segreti di non sorvegliare più Hamas, di comportarsi come se il vicino fosse la Svizzera e non un'entità che nel suo atto di nascita indica come scopo prioritario quello di "distruggere Israele"?


Un'orgia di sangue a Gaza per dimenticare

Il generale Haliva e gli altri dirigenti dei vari servizi hanno appoggiato in pieno Netanyahu nella scriteriata valutazione di preoccuparsi di altro. Il risultato terribile è stato il sanguinoso risveglio del 7 ottobre, paragonabile all'11 settembre e anche a Pearl Harbor.

Inoltre, in questi mesi di guerra, sicuramente accecati dai sensi di colpa, le forze israeliane hanno ecceduto nel senso opposto: colpire, colpire sempre, senza preoccuparsi dei civili coinvolti, delle migliaia di innocenti uccisi. La frenesia non tanto di vendicarsi, ma piuttosto di recuperare il dominio perduto sulla situazione ha spinto governo israeliano, IDF e servizi segreti a una vera e propria frenesia bellica e sanguinaria: si attacca, si combatte, si individuano di continui nuovi bersagli, senza però seguire un progetto.

Infatti in questi mesi tutti sono rimasti colpiti oltre che, naturalmente, dalla grande strage di civili, anche dal fatto che Israele, a differenza del passato, non sembri individuare gli obiettivi principali. Dopo quasi duecento giorni di battaglia, dopo un numero pressoché infinito di incursioni, l'IDF ha eliminato circa tredicimila miliziani di Hamas, novanta ufficiali di alto grado, ma ha fallito nell'uccidere i dirigenti principali che sono quasi tutti vivi, così come non sono state individuate le prigioni degli ostaggi. Nessuno sostiene che sia facile, anzi, ma dopo duecento giorni la differenza fra previsioni e risultati è mortificante.

Haliva aveva deciso di dimettersi subito dopo la fine della guerra, ma il lungo protrarsi della vicenda, e le polemiche sugli obiettivi falliti gli ha fatto cambiare idea. È evidente il suo logoramento psichico, la necessità di mettere un punto fermo a una situazione personale diventata insopportabile. Il generale diventa così il simbolo del logoramento collettivo di questi mesi, di questo senso di angoscia davanti a una situazione che non si riesce a controllare.

È chiaramente anche un'implicita critica a Netanyahu, che al contrario, ha assunto l'atteggiamento opposto di fronte al proprio fallimento: "Lasciatemi fare e rimedierò. Ora dobbiamo pensare soltanto a sconfiggere i nemici. Le analisi e le conclusioni le faremo dopo". C'è sinceramente da chiedersi quanto si potrà andare avanti così.

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