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Guerra o pace, questione irrisolta per l’Europa


di Stefano Marengo

Siamo all'86esimo giorno di guerra tra Russia, l'aggressore, e l'Ucraina, l'aggredito. Spiragli di pace ancora astratti, anche se Kiev valuta il piano di pace proposto dall'Italia. La pre-condizione rimane il ritiro delle truppe russe dal territorio ucraino. Intanto, Putin annuncia che la cyber aggressione contro la Russia è sostanzialmente fallita, proprio come gli attacchi delle sanzioni in generale", mentre si registra la resa di circa 2mila nazionalisti trincerati nell'acciaieria Azovstal di Mariupol. Sullo sfondo di una guerra che quotidianamente produce distruzioni e morti da una parte, e arricchimenti e incremento del potere dell'apparato industriale militare dall'altro, l'Europa rimane in mezzo al guado, incapace di costruire una strategia di pace come sarebbe nel suo interesse.


Dopo quasi tre mesi di guerra in Ucraina, occorre chiedersi se la ricerca dell’unità d’intenti in Europa rimanga un valore meritevole di essere perseguito in quanto tale o non sia piuttosto diventato un feticcio che impedisce approdare ad accordi ragionevoli di de-escalation con la Russia. L’impressione è che nel Vecchio Continente ciascuno suoni il proprio spartito senza accorgersi che la melodia che ne risulta non si accorda per nulla a quella degli altri.


Il pensiero macroniano

Emmanuel Macron, pur muovendosi con forse eccessiva cautela, ha dato prova di saggezza nel dire che “non siamo in guerra contro la Russia”, che occorre rilanciare una seria iniziativa diplomatica e che, comunque vadano le cose, Mosca “non va umiliata”. Parole distensive che sono un preambolo necessario ad ogni ipotesi di negoziato e che hanno avuto la virtù di stemperare le posizioni intransigenti del presidente americano Joe Biden e del premier britannico Boris Johnson. Così facendo, monsieur le Prèsident ha dimostrato di avere ben chiaro che l’interesse nazionale francese può essere efficacemente soddisfatto solo attraverso la pacificazione dei rapporti con la Russia. La sua, d’altronde, è una linea politica su cui possono convergere anche la Germania e buona parte dei paesi dell’Europa meridionale (Italia e Spagna in testa), vale a dire tutti coloro che subirebbero i danni maggiori, da un punto di vista economico, ma non solo, qualora il conflitto ucraino dovesse continuare a lungo.


C’è però anche dell’altro. Macron, infatti, è finora apparso l’unico leader europeo davvero consapevole dei pericoli ai quali si espone l'Europa nella sua integrità politica (e intellettuale) a condividere lo sforzo bellico perseguito da Stati Uniti, Gran Bretagna e diversi paesi dell’Europa orientale. Il prolungamento indefinito del conflitto che ha come obiettivo primario quello di logorare Mosca potrebbe risultare compromettente, se non esiziale, per l’economia europea nel suo complesso, ma soprattutto comporterebbe il rischio di un’estensione della guerra su scala continentale e, anche nell’eventualità di una sconfitta militare dell'armata russa, genererebbe uno tsunami di instabilità politica che ben difficilmente potrebbe essere arginato nei tempi imposti dalla ripresa economica.


Finlandia e Svezia: addio al neutralismo

Se Macron intona un inno al compromesso, altri, per parte loro, hanno dato fiato ai corni di una guerra verbale che il Cremlino ha necessariamente raffreddato per non accrescere anche forme di revanscismo interno. L’ultima in ordine di tempo è l’ipotesi di adesione alla Nato di Finlandia e Svezia, prospettiva per ora frenata da un Erdogan che, per ironia della sorte, si trova nell’improbabile ruolo di statista ragionevole e moderato (e sicuramente interessato a ricavare qualche beneficio per sé). L'atteggiamento di Finlandia e Svezia, peraltro, ha un che di singolare se rapportato alla storia (diversa) delle due nazioni durante la seconda guerra mondiale.


La Finlandia, attaccata da Stalin in seguito al patto Ribbentrop-Molotov con una serie di pretesti e reazioni che ricordano molto da vicino la guerra tra Russia e Ucraina, aveva subito un pesante trattato di pace, di cui si era liberata scendendo in campo a fianco della Germania nazista, all'invasione dell'Unione Sovietica. Nel caos degli ultimi anni di guerra, il governo finlandese era riuscito a ritagliarsi un accordo con Stalin e all'antico nemico aveva promesso la sua neutralità confidando, così come avvenne, nella disponibilità del dittatore georgiano. Una linea perseguita fino alla caduta dell'Unione Sovietica.


Neutralità che è nello spirito della Svezia che all'invasione della Polonia, il 1° settembre del 1939, aveva ribadito la sua posizione (già espressa nella Prima guerra mondiale),non senza aver caldeggiato la mobilitazione di volontari in Finlandia contro l'Armata Rossa, e permesso ai treni nazisti di attraversare il propri territorio per l'invio di truppe ai vari fronti. Un comportamento di complicato equilibrismo in uno scenario internazionale che vedeva Stoccolma crocevia e punto di transito di spie di ambo gli schieramenti, donne e uomini di altri Paesi disposti a combattere le SS, norvegesi soprattutto, diplomatici, esponenti della Croce rossa impegnati negli aiuti ai prigionieri e a salvare ebrei. Insomma, un coro determinato a dare un contributo nell'ombra in attesa di vedere morire Hitler, proprio come descritto, tra paradossi e tormenti politici, da una vecchia pellicola in bianco e nero svedese del dopoguerra. Oggi, comunque, il messaggio inviato a Mosca è chiaro: in quella parte del nord Europa c’è chi è ben deciso a condurre il conflitto fino in fondo a sostegno degli ucraini.


Le strategie convergenti di Biden e Johnson

A capitanare la “cordata” atlantica ci sono, come detto, i governi di Washington e Londra. Ben al riparo al di là dell’Atlantico e autosufficienti dal punto di vista energetico, gli Stati Uniti puntano a chiudere i conti con Mosca per concentrarsi sulla “minaccia cinese” nel Pacifico, vero theatrum belli su cui si giocherà la partita per la prossima egemonia mondiale: le fibrillazioni per l’accordo di difesa comune siglato di recente da Pechino e dalle Isole Salomone ne sono una bronzea conferma. Putin, invadendo l’Ucraina, ha finito per fornire agli USA un formidabile pretesto per avviare il piano, a lungo progettato, di logoramento e messa all’angolo della Russia. D’altra parte Biden sta anche tentando (finora senza successo per la gioia dei seguaci e elettori di Trump) di utilizzare la crisi ucraina come diversivo per alleggerire la grave crisi interna agli Stati Uniti.

Il “pericolo russo”, secondo la Casa Bianca, può in effetti essere utile a ricompattare una società statunitense che mai nella sua storia è stata così radicalmente dilacerata tra fronti ideologici incompatibili, con i sovranisti trumpiani vivi e vegeti e pronti a rimettere le mani sul potere alle prossime scadenze elettorali. Il Regno Unito, da parte sua, è orientato a costruire una propria suballeanza nel contesto Nato. Liberatasi con la Brexit dei lacci e lacciuoli che la legavano all’Unione Europea, Londra sembra rispolverare antiche e in realtà mai dimenticate pulsioni imperiali, puntando a ricavare nel nord Europa un proprio spazio di dominio. Geograficamente, l’area in questione è quella del Mare del Nord e del Baltico, ossia una regione di storica contesa tra interessi britannici e russi, per cui ben si capisce l’intraprendenza di Downing Street nello sponsorizzare l’ingresso di Stoccolma e Helsinki nell’alleanza atlantica e, più in generale, nello spronare i paesi scandinavi e quelli baltici ad assumere posizioni radicalmente ostili a Mosca.


È evidente che la guerra in Ucraina ha fatto emergere una linea di faglia che già oggi divide l’Europa in due. Due aree geografiche (nord ed est Europa da un lato, Europa occidentale e mediterranea dall’altro), ma soprattutto due prospettive politiche e linee strategiche che ben difficilmente possono coesistere o, nel migliore dei casi, trovare un punto comune di mediazione soddisfacente per entrambe. Come tenere insieme la necessaria propensione al dialogo di alcuni con l’idea di altri di farla finalmente finita con il “nemico storico”? In altre parole, il principio dell’unità europea non sembra ormai avere alcuna realtà al di fuori delle dichiarazioni dei leader che vi fanno appello: un feticcio, come dicevamo, con cui si crede di poter tenere insieme una realtà percorsa da formidabili spaccature.

Tale è il risultato, piuttosto prevedibile, di decenni di mancata integrazione politica in cui l’Unione europea ha creduto, da un lato, di poter esistere unicamente come megastruttura tecnocratico-neoliberista, mentre dall’altro ha delegato la propria proiezione internazionale e le strategie di difesa alla Nato, un’organizzazione decisa in un altro periodo storico, di estrema contrapposizione ideologica, costruita a immagine e somiglianza, ma non poteva essere altrimenti, degli interessi statunitensi. E dirlo, se non altro per correttezza storica, non può diventare sinonimo di lesa maestà, tradimento o, peggio, di filoputinismo, come si sente ripetere con convinta e meccanicistica pulsione in più talk show.

In questo contesto, diventa inevitabile chiedersi quanto sia utile continuare ad alimentare la finzione dell’unità d’intenti europea. Non è forse più opportuno, oltre che politicamente responsabile, prendere atto delle spaccature esistenti e, su questa base, ricalibrare i progetti per il futuro del continente? Non è preferibile che alcuni paesi che condividono la medesima visione strategica proseguano da soli sul cammino dell’integrazione politica, magari secondo il modello dell’Europa a due velocità di cui tanto si è parlato in passato? L’Europa occidentale e mediterranea (ossia, in definitiva, il nucleo della CEE con alcune aggiunte) avrebbe le capacità per intraprendere questa strada. C’è da augurarsi che ne abbia anche la forza.


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