top of page

Guccini e la locomotiva di Pietro Rigosi

di Marco Travaglini


E che ci giunga un giorno ancora la notizia di una locomotiva come una cosa viva, lanciata a bomba contro l'ingiustizia”. Così termina La locomotiva, la più popolare delle ballate composte da Francesco Guccini, compresa nell’album Radici che vide la luce cinquant’anni fa, nel 1972. In tantissimi l’hanno cantata, ritmandone le strofe, ma è difficile stabilire in quanti davvero sanno che questa ballata si riferisce a un fatto realmente accaduto che vide protagonista il ventottenne anarchico bolognese Pietro Rigosi. Era il 20 luglio del 1893 quando questo aiuto macchinista (per l’esattezza, fuochista) delle Ferrovie del Regno d’Italia, impadronitosi di una locomotiva in sosta, la mise in moto, lanciandola sui binari alla velocità di cinquanta chilometri all’ora che per quei tempi era davvero ragguardevole. La locomotiva, immatricolata 3541, faceva parte delle centotrenta unità della Rete Adriatica e trainava un treno merci.


Lo schianto della “macchina pulsante che sembrava fosse cosa viva

Quel giorno, durante una sosta nella stazione ferrarese di Poggio Renatico (attualmente sulla linea Padova-Bologna) approfittando della momentanea assenza di Carlo Rimondini, il macchinista titolare, Pietro Rigosi - che lavorava in quella stazione - salì sulla locomotiva e la portò a tutta velocità verso Bologna. Venticinque minuti dopo l'allarme la “macchina pulsante che sembrava fosse cosa viva” entrò nella stazione felsinea e, agli attoniti responsabili della linea ferrata, non rimase che deviarla su un binario morto. Rigosi, passando sugli scambi, comprese subito la situazione: smise di spalare il carbone, uscì dalla cabina e si arrampicò sul muso della macchina, proprio sotto il fanale, quasi intendesse prepararsi al sacrificio. Lo schianto contro la vettura di prima classe e i sei carri merci che si trovavano in sosta sul binario tronco fu tremendo, ma l'uomo si salvò: evidentemente l'urto lo fece schizzare via prima che i due veicoli si incastrassero l'uno nell'altro. "Il disastro di ieri alla ferrovia. L'aberrazione di un macchinista", titolò Il Resto del Carlino del 21 luglio 1893.

Nell'articolo sul quotidiano bolognese si leggeva: "Poco prima delle 5 pomeridiane di ieri, l'Ufficio Telegrafico della stazione (di Bologna, ndr) riceveva dalla stazione di Poggio Renatico un dispaccio urgentissimo (ore 4,45) annunziante che la locomotiva del treno merci 1343 era in fuga da Poggio verso Bologna. Lo stesso dispaccio era stato comunicato a tutte le stazioni della linea, perché venissero prese le disposizioni opportune per mettere la locomotiva fuggente in binari sgombri dandole libero il passo in modo da evitare urti, scontri o disgrazie. [...] Capo stazione, ingegneri e personale del movimento furono sossopra e chi diede ordini, chi si lanciò lungo la linea verso il bivio incontro alla locomotiva che stava per giungere. Non si sapeva ancora se la macchina in fuga era scortata da qualcuno del personale; e solo i telegrammi successivi delle stazioni di San Pietro in Casale e Castelmaggiore, che annunziavano il fulmineo passaggio della locomotiva, potevano constatare che su di essi stava un macchinista e un fuochista. Ma la corsa continuava e la preoccupazione alla ferrovia cresceva [...]“.


Che importa morire? Meglio morire che essere legato!”

Al Rigosi venne amputata una gamba e il viso gli rimase deformato dalle cicatrici. In seguito all’incidente fu costretto a una lunga degenza in ospedale, ma dopo un paio di mesi fece ritorno a casa. Nessuno seppe mai il vero motivo del suo folle gesto, ma un cronista della “Gazzetta Piemontese” (che l’anno successivo cambiò nome diventando La Stampa) riportò che, dopo il ricovero, l'uomo si lasciò sfuggire una frase tutt’altro che sibillina: "Che importa morire? Meglio morire che essere legato!".

Le sue azioni, essendo un anarchico, vennero interpretate dai più come un disperato gesto di protesta per le difficilissime condizioni di vita e di lavoro dell'epoca. Una ribellione contro l’ingiustizia sociale che, a quel tempo, si manifestava in forme inaccettabili anche nel mondo del trasporto ferroviario, dove le vetture e i convogli di prima classe erano di gran lusso, mentre alle classi inferiori erano riservate carrozze scomode e fatiscenti. La vita stessa dei macchinisti, tra fine Ottocento e primo Novecento, era molto dura e i “musi neri” delle macchine a vapore dovevano sobbarcarsi turni ininterrotti fino a trenta o quaranta ore, esposti alle intemperie su macchine senza protezione, costretti a rispettare una rigida disciplina militare. Un lavoro pesante, da rompersi la schiena: una corsa da Venezia a Bologna costringeva il fuochista a spalare anche quaranta quintali di carbone. E la mortalità era altissima: appena il dieci per cento dei macchinisti raggiungeva l’età della pensione. Tornando a Rigosi, occorre dire che si era più volte segnalato per l’indole ribelle e insofferente alla disciplina che a lui e agli altri veniva imposta.


"Gli uomini sono tutti uguali"

La conferma si trova nei registri ferroviari dell’epoca che riportano le “sanzioni” che gli furono comminate in ragione di questa insofferenza all’ambiente lavorativo: “multa di lire 5 per aver risposto con modo sconveniente al Capo Deposito di Piacenza mentre questi faceva delle giuste osservazioni al suo macchinista; sospensione per tre giorni dal soldo e dal servizio per essere venuto a diverbio col macchinista Baroncini Federico, per futili motivi, tra Mestre e Marano; sospensione dal soldo e dal servizio per giorni tre per aver preso in mala parte una frase detta per ischerzo da un macchinista del Deposito di Milano e non a lui rivolta, provocando così un diverbio, seguito da vie di fatto, in stazione di Piacenza; sospensione dal soldo e dal servizio per giorni due per aver preso parte a un deplorevole alterco sotto la pensilina della stazione di Padova; assente alla partenza del treno 1008 del 7 agosto sebbene avvisato, il giorno prima e avanti alla partenza, dallo svegliatore”.

Per quel suo gesto, il “pazzo che si è lanciato contro al treno” non ricevette nessuna pena giudiziaria, ma soltanto un esonero dal servizio in ferrovia per motivi di salute (e non un licenziamento in tronco) e la corresponsione di un sussidio non particolarmente elevato. Ma pare che, al ritiro del sussidio, leggendo il motivo dell’esonero (“buona uscita”), cambiò idea e testardamente si rifiutò di firmare. Accettò di ritirare la somma solamente dopo che la motivazione venne sostituita con “elargizione”. Dopotutto era convinto di aver agito in nome e per conto di “quella grande forza che spiegava allora le sue ali”, con “parole che dicevano... gli uomini son tutti uguali”, e la buona uscita suonava alle sue orecchie come un’inaccettabile offesa.


27 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page