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Tracy Chapman ieri, Fast car oggi: dietro la tragedia di Roma


di Stefano Maria Cavalitto

Nell’ormai lontano 1988 la cantautrice statunitense Tracy Chapman divenne nota a molti con una canzone intitolata Fast car[1] in cui si narrava la storia di vite costellate da fallimenti attraverso più generazioni. L’unico momento di libertà sembrava essere correre su auto veloci, per lasciare indietro il passato, o forse, gettarsi verso un futuro che non si vedeva così vicino e possibile.

Credo abbia toccato tutti la notizia che in una corsa ad alta velocità sulla strada statale di Casal Palocco a Roma, un ventenne al volante di un potente Suv Lamborghini ha investito un’altra auto con a bordo tre persone: una madre con i suoi due figli piccoli, causandone il ferimento dei tre e la morte di uno di essi. Chi è morto nello scontro tra le due auto è un bambino di cinque anni.

Questo ha scosso ancora di più le coscienze di chi è venuto a conoscenza della notizia. Ma ciò che ha reso tale notizia al limite dell’assurdo è il motivo della corsa ad alta velocità dell’investitore: una corsa fatta per essere ripresa dai social media ed ottenere il maggior numero di contatti (followers) e di conseguenza anche cospicui guadagni economici. Un gesto che essendo totalmente dissociato dalla realtà in cui si è verificato e soprattutto dissociato dalle conseguenze che tale gesto poteva ed ha effettivamente avuto sulla realtà circostante, possiamo lecitamente definire folle.

Già, folle. Potremmo inoltre dilungarci su ciò che definisce un gesto folle, sul significato del termine follia esprimendoci in spiegazioni mai peraltro esaustive, ma accontentiamoci in questo caso di considerare il termine folle come qualcosa di scollegato con la coscienza. Coscienza individuale di chi lo compie e coscienza collettiva del contesto sociale in cui esso si compie.

Sono già state scritte molte pagine di commento a tale vicenda, alcune che si addentrano più sul versante e sulle determinanti sociali del gesto compiuto, altre su quelle educative (mancate) di matrice familiare, altre sul versante più specificamente psicologico. Vorrei provare a tenerle assieme tutte poiché un tale gesto non può avere una spiegazione riduttiva e forse non può avere solo una spiegazione in senso stretto, ma necessita di una comprensione più ampia. Comprensione che in questo caso non è, e sottolineo non, ovviamente sinonimo di giustificazione, ma è un tentativo di tenere assieme più lembi anche frastagliati della questione. Istintivamente viene da chiedersi il perché di un tale gesto, al di là di ciò che le indagini balistiche possano in modo più o meno preciso raccontarci ancora.

Cosa porta a comportarsi così? Le cause proposte dai vari commentatori vanno dalla mancanza di valori in cui gli attori in gioco si troverebbero, all’uso acritico e dipendente dei social media, alla mancanza educativa (e repressiva) delle istituzioni, famiglia compresa. Tenterei tuttavia di ribaltare la questione e piuttosto che chiederci quali siano le cause di ciò, proverei a chiederci quale ne sia il fine. A cosa voleva portare quella corsa sfrenata in auto? Proviamo ad elencare alcune ipotesi: notorietà, riconoscimento pubblico, una certa fama, soldi non in ultimo.

Non ricordo chi disse che con l’avvento della televisione tutti potevano avere ora a portata di mano il proprio quarto d’ora di notorietà... Da un punto di vista psicologico guarderei quantomeno anche a tale lato: il lato pervaso e perverso di una necessità di sentirsi narcisisticamente protagonisti in una vita che evidentemente è sentita come vuota, senza senso, allagata da un’angoscia che non si riesce neanche a sentire. Si cerca così la scorciatoia nello specchio dell’immagine della virtuale notorietà, del virtuale riconoscimento pubblico, della virtuale fama che la tecnologia dalla fibra veloce (appunto) concede. Tutto e subito. Virtuale il tutto poi fino ad un certo punto: notorietà forse effimera e sicuramente non su solide basi, però anche reale come i soldi guadagnati dalle inserzioni pubblicitarie connesse ai video postati e ai like che presumono che qualcuno li abbia messi.

Uno dei passaggi finali della canzone di Tracy Chapman sopra citata recita (traduzione mia): "con la velocità così alta, mi sentivo come se fossi ubriaca […] sentivo come un sentimento di appartenenza, sentivo di poter essere qualcuno, essere qualcuno, essere qualcuno... Ecco, poter essere qualcuno è forse il punto, qualcuno non come personaggio, ma qualcuno come individuo". Tracy Chapman, 1988.




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