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Da unti ad untori, il passaggio è breve

Aggiornamento: 7 apr 2023

di Emanuele Davide Ruffino

Le pesti di manzoniana memoria venivano gestite da collettività stabili con riferimenti etico-religiosi comuni e una classe amministrativa ben individuata (anche se non sempre lungimirante e spesso condizionata dall’avidità) in grado di gestire gli approvvigionamenti e di ordine pubblico. Già negli anni ‘80, per primi i giapponesi con il termine dochakuka, traducibile con glocalismo, si era cercato di far coincidere l’affermarsi di processi di integrazione internazionale con le realtà locali. In assenza di gravi crisi, le risorse create dalla globalizzazione hanno permesso soluzioni tali da ampliare il panorama della globalizzazione, senza la necessità di scelte drastice. L’insorgere di “nemici invisibili” riporta l’attenzione sull’articolazione dei livelli decisionali, dove tutti sono vittime e complici di inconcludenti dibattiti sui confini di poteri/competenze. Non si tratta solo più di migliorare il funzionamento dei meccanismi momentaneamente “arrugginiti”, ma d’individuare nuovi paradigmi in grado di rispondere a esigenze generali in rapporto alle risorse disponibili. La nostra società è chiamata a verificare l’interagire di due forze contrapposte: la globalizzazione che porta alcuni aspetti del vivere in comune a dover essere gestiti a livello planetario ed il rispetto delle necessità dei singoli che presuppongono un ambiente a misura d’uomo. Chi si sente a rischio abbandona ogni principio di solidarietà rivendicato dal medesimo fino al giorno prima, generando situazioni confuse, facili preda di opportunisti senza scrupoli. Le epidemie sono sempre state occasioni di facili guadagni ed anche oggi, l’oscillazione di alcuni prezzi, dalla mascherine ai disinfettanti, sembrano rinverdire la tradizione. Operando in un contesto mondiale, di fatto, si realizza il massimo livello di concorrenzialità commerciale (epidemie permettendo) o di confrontabilità intellettuale (pregiudizi permettendo) con evidenti benefici, ma oggi il processo viene bloccato dalla rincorsa di notizie, vere e false, le cui contraddizioni saranno verificate dalla storia: ciò che è certo è il non sufficiente coordinamento dei poteri decisionale centrali e periferici. Il Coronavirus mette in contrasto l’acquisita disponibilità di tecnologie e di know how, con le tradizionali paure insite in tutti gli essere umani che nei social network trovano un eccezionale megafono, facile da manipolare. La scarsa capacità del singolo microcosmo di realizzare condizioni di eticità, disponibilità di mezzi e condizioni di vita accettabili in modo da evitare il contagio, si aggrava con le notizie del mondo virtuale. Esaminando l’interagire dei poteri intermedi, quali ormai possono essere considerati Stato e Regioni, appare chiaro come il conflitto di competenze rappresenti una chiave di volta. Il corona virus rileva brutalmente come i problemi sono globali, ma la risoluzione rimane locale, anzi è governata da contrasti locali, facendo riaffiorare l’ipotesi che, richiudendosi a riccio, si possano minimizzare i danni. Il potere centrale degli Stati deve fare i conti sia con le strutture internazionali sia con le autonomie locali, tutti impegnati a delegare le responsabilità più che a governare i fenomeni, rinunciando di fatto a definire una “catena di governabilità”. Ad essersi ammalata è la “rappresentanza democratica” che continua a eleggere i suoi rappresentanti, dal consigliere comunale al deputato europeo, ma non riesce più a identificare a quale livello siano delegati i poteri. Tutti sono impegnati a dire che gli altri sbagliano e così non si capisce più chi è l’unto e chi è l’untore.


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