Covid-19: prendiamo il meglio delle soluzioni asiatiche
di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi |
Mentre l’Occidente continua ad autoparalizzarsi con misure in contrasto l’una con l’altra e nell’avviare megalitici conflitti giudiziari con le industrie farmaceutiche, in alcuni paesi che si affacciano sull’oceano Pacifico (Corea del Sud, Taiwan, Giappone, Australia, Nuova Zelanda) il fenomeno non è scomparso ma presenta un impatto decisamente meno virulento. La seconda ondata in questi Paesi, per ora, si concretizza in poche decine di casi: se avanzare dubbi sui dati provenienti dalla Cina anche secondo l’OMS può risultare fondato, l’alibi non regge nei confronti di paesi dove la libertà di espressione è comprovata come per i Paesi dell’Oceania. Verrebbe da dire che in Occidente si è parlato molto, ma si è deciso poco e quel poco che si è deciso non è stato recepito (in Italia, a 5 mesi dal lancio dell’app Immuni, solo il 22% della popolazione lo aveva scaricato).
Se il senso civico fosse un po’ più sviluppato non ci sarebbe bisogno di emanare norme per evitare assembramenti, ma così non è, per cui occorre predisporre efficaci forme di controllo (per non dire repressione), senza compromettere le indispensabili forme spontanee di convivenza di cui un essere umano abbisogna, evitando così di compromettere gli equilibri economici e sociali. Dalla repressione al buon senso
I governi dei vari paesi, hanno così dovuto affrontare un problema inaspettato contro un nemico invisibile impostando soluzioni che, in prima approssimazione si muovono su due estremi: mantenimento del massimo livello di libertà (nessuna o poche restrizioni) oppure chiusura totale con impedimento di tutte le possibilità di contatto. Posizioni astratte, di fatto non applicabili, ma tra questi estremi si vanno a collocare tutte le soluzioni possibili. Del resto, gli irresponsabili esistono in ogni paese. Esempio eclatante in Corea del Sud, dove un giovanotto pur sapendo che era positivo passò da una discoteca all’altra, e ciò porta a chiedersi se era più opportuno chiudere tutte le discoteche o impedire che la stupidità di un singolo penalizzasse tutti. Le necessità di contrastare la pandemia ha obbligato a ricercare nuove soluzioni: partendo dall’imperativo che “l’importante è conoscere”, sia pur in forme diverse, da Paese a Paese, si sono avviati programmi di digitalizzazione per generare i cosiddetti big data: grandi masse di dati, o megadati costituiti da raccolte di dati informativi così estese, in termini di volume, velocità e varietà da richiedere tecnologie e metodi analitici specifici per l’estrazione di valori per poi operare una sintesi di supporto per i Decision Maker. L’approccio presuppone la capacità di analizzare, ovvero estrapolare e mettere in relazione, un’enorme mole di dati eterogenei, strutturati e non strutturati (grazie a sofisticati metodi statistici e informatici), allo scopo di scoprire possibili correlazioni tra fenomeni in apparenza inconciliabili e prevederne la mutazione. Scenari e soluzioni generatesi dall’altra parte del mondo
Il maggior livello di preparazione informatica ha agevolato, in primis Giappone e Corea del Sud nell’adottare politiche di tracciamento universale della popolazione attraverso app per smartphone o con raccolte di dati «a strascico» ovvero utilizzando gli indizi quali quelli lasciati dalle carte di credito o dalle immagini registrate sulle videocamere in luoghi pubblici. I problemi di privacy erano già stati risolti nel 2015 per superare l’epidemia di Mers- Cov nel 2012 e Sars-CoV (con buona pace dei giuristi). Nella lotta alla pandemia ha così assunto particolare rilievo il tracciamento retrospettivo dei cluster di trasmissione (focolai epidemici), cioè gruppo di casi, più o meno limitati, di una stessa patologia, verificatisi in una data zona e periodo, anche se non apparentemente correlabili tra loro: le indagini epidemiologiche cercano proprio di relazionare i casi registrati. Individuato il punto critico (l’affollamento sui treni) nei paesi dell’estremo oriente si sono sviluppate le soluzioni alternative, come lo smart working su larga scala e gli orari differenziati. In Cina e in Giappone, inoltre, era già abitudine consolidata l’uso della mascherina per proteggere sé stessi e gli altri da raffreddori e allergie, oltre che per gli impressionanti livelli di inquinamento (con buona pace dei “no mash”). Misure draconiane sono anche state assunte in Australia: Melbourne è stata isolata per 112 giorni. Nessuno poteva entrare o uscire dalla zona a rischio, se non per motivi di stretta necessità e si è imposto una rigorosa quarantena verso chiunque provenisse dall’estero. Tutte misure conosciute anche da noi in Occidente, ma applicate in modo confuso. Le radici dell’irrazionalità dei comportamenti
Nei momenti maggiormente acuti della pandemia, le indicazioni per ridurre gli assembramenti anziché essere accolte con senso civico, hanno generato, forse sotto l’impulso del fascino del proibito, effetti contrari a quelli desiderati. Premonitori di simili comportamenti furono i caroselli di automobili spontaneamente creatisi durante i periodi di austerity, determinati dalle crisi petrolifere degli anni Settanta: il non permesso di circolare con le auto nei giorni festivi, portava le persone a mettersi al volante appena superata la mezzanotte (comportamento assolutamente legale, ma non proprio razionale, anche ammesso che a quei signori la benzina fosse regalata) così come certi assembramenti in periodi di contagio, appena si ha la “sensazione” di poter allentare le prescrizioni non sembrano rispondere a regole di buon senso. L’autonomia del singolo inevitabilmente deve confrontarsi con la necessità di interagire con la condotta di milioni di suoi simili, obbligando a rivedere tutti i suoi parametri comportamentali e il modo di concepire la vita in una comunità.
L’appartenenza ad un gruppo, quale manifestazione del bisogno irrinunciabile per un essere umano, deve trovare soddisfazione non solo nei rapporti parentali o nei gruppi di lavoro ma, sempre più, nell’identificarsi in un gruppo che faccia sentire il soggetto, attore protagonista di un progetto volto a tutelare le sue aspettative. Nello smisurato mondo di internet, il poter vantare amicizie e collegamenti è già di per sé un’affermazione di appartenenza, anche se ancora effimera e socialmente instabile. Il navigare nell’iperspazio non riduce però la necessità di incontrare altre persone: bisogno che non può essere proibito, bensì educato e sviluppato in forme sostenibili, senza ricorrere alla forza, se non in casi davvero estremi, ma soprattutto con la cultura.
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