Corsi e ricorsi storici: dal morbo del Decameron alla peste manzoniana e al Covid-19
di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi |
Per capire che cosa è avvenuto nel 2020 (cioè oggi) può risultare utile rifarsi alle tante descrizioni di cosa è successo durante le grandi epidemie susseguitesi nella storia. Cambiano i riferimenti, ma le paure, le ansie e gli isterismi della gente sono rimasti simili, nonostante lo scorrere del tempo, così come gli errori perpetrati sono spesso altrettanto simili. Ad esempio i testi la ricordano come la peste del 1630, ma i primi casi furono già registrati l’anno prima, allorché i lanzichenecchi cominciarono a scorrazzare nella pianura lombarda per le contese sul ducato di Mantova (così come l’epidemia dei nostri giorni era già nel 2019, ma almeno noi col Covid-19, non abbiamo sbagliato anno).
Quando il morbo comparve in Lombardia nel 1629
Manzoni ricorda come il dottor Lodovico Settala, esimio medico milanese, già prodigatosi nel contrastare l’epidemia del 1576, il 20 ottobre 1629 (siamo nel periodo della famosa peste de I Promessi sposi) informò il Tribunale di Sanità che l’epidemia si stava diffondendo nei territori tra Lecco e il Bergamasco così come Alessandro Tadino, componente del Tribunale di Sanità sollevò il problema all’allora governatore di Milano Don Gonzalo Fernandez de Cordoba sul possibile rischio, suggerendo provvedimenti di carattere preventivo. Ragion di stato non permisero però di sospendere i collegamenti con la Germania o di stringere cordoni sanitari (oggi “zone rosse”) intorno alla città meneghina per impedire ai soggetti provenienti dalle zone in cui già la peste mostrava segnali di virulenza l’ingresso nella città (e ci si limitò a confidare nella Provvidenza).
All’epoca il calcio, inteso come sport, non era ancora comparso nella vita quotidiana, ma erano diffuse feste organizzate per qualsivoglia occasione civile o religiosa, in ossequio al motto “panem et circenses”: sfortuna volle che nacque il primogenito di Filippo IV re di Spagna cui seguirono “pubbliche feste” in tutti i domini spagnoli e così il 18 Novembre 1629 si riversarono su Milano gente da ogni dove (una movida antelitteram). Il 29 dello stesso mese si emanarono le “grida”, ma l’epidemia era già scoppiata…
Nei lazzaretti ricoverati fino a 10 mila contagiati
Ovviamente si cominciò a ricercare il primo untore. In prima battuta si individuò un certo Pietro Antonio Lovato che ignaro del rischio, comprò un fagotto di vestiti da alcuni fanti tedeschi, e li portò seco a casa di suoi parenti presso Porta Orientale. L’ignaro morì tre giorni dopo con un bubbone sotto l’ascella. Il Tribunale di Sanità ordinò di bruciare tutte le sue suppellettili e di internare presso il lazzaretto le persone che erano entrate in contatto con lui. Manzoni, per la verità, non diede pressoché nessuna importanza a chi fu il paziente zero: da ciò potremmo dedurre che il giornalismo moderno, impegnato ad identificare nome o nazionalità del primo untore, non si muove nell’alveo della cultura manzoniana. Per alcuni virologi dell’epoca, la causa delle numerose morti era da attribuirsi alla febbre malarica e gli affetti venivano ricoverati nei lazzaretti (di sicuro arrivano ad ospitarne più di 10.000).
Per frenare l’epidemia si provò anche con la stregoneria…
Chiamare una malattia con un nome meno brutto (i sintomi della peste non permettevano di ricondurla ad una normale influenza), truccare i dati sulla diffusione (ma all’epoca non si poté ancora attribuire la colpa all’O.M.S.) o nascondere i cadaveri, non contribuì certo a raffreddare la sua diffusione. Molti tenevano in casa i casi sospetti per non vedersi bruciare i pochi averi, accumulati con anni di fatica e sotterravano i morti di notte, mentre la voce popolare accusava di incompetenza e convivenza il Tribunale di Sanità per non parlare di quei medici che si erano adoperati per fronteggiare l’emergenza, considerati alla stregua degli untori. Il Tadino fu anche accusato (e preso a sassate) di diffondere paure infondate sulla peste per dare lavoro alle strutture sanitarie. A sua volta, la scienza ufficiale reagì promuovendo processi contro la stregoneria, ma con scarsi risultati (però si doveva pur trovare qualcuno contro cui prendersela).
Pensieri e parole del Boccaccio sul degrado della società
Continuò così finché ad essere colpite furono alcune famiglie nobiliari. A quel punto si emanarono le prima grida che proibivano di lasciare la città (più severi ancora del non dover lasciare la Regione) e minacciavano pene severissime, compresa la confisca di tutto il patrimonio. Ma, come si potrà comprendere, per i nullatenenti non costituiva un efficace strumento di dissuasione, più efficace per i nobili che tentavano di fuggire da Milano verso la seconda casa, per imitare l’esperienza del Decameron del Boccaccio. Correva l’anno 1348 e una decina di giovanotti si ritirano nei loro possedimenti in campagna dove ebbero molto tempo per riflettere sul degrado morale della società che l’epidemia aveva messo in luce. Secondo il Boccaccio, le cause erano da ricondursi ad “operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali… E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta”. Ciò che colpì il Boccaccio, oltre il proliferare di tanti finti medici che fecero lauti guadagni, fu la dissoluzione di ogni forma di società o di rapporto civile che, con il diffondersi del contagio, fece venir meno tutti i “principi d’affetto o di sangue”: i malati venivano abbandonati in casa dai loro stessi parenti, i poveri morivano in strada, i servi si approfittavano dei padroni ammalati per derubarli… In questo dissesto del sistema socio-economico, non restava che provare a ripristinare i valori dell’equilibrio e della razionalità. Da qui l’idea fondante il progetto del Decameron di ricostruire una nuova società, esemplificata dalla serena convivenza dei dieci giovani nella corte di campagna. Le pestilenze tra sospetti, cospirazioni (presunte) e untori
La perdita di moralità durante il contagio è un aspetto comune ad altre descrizioni precedenti di pestilenze, tra gli altri, Tucidide raccontò la peste durante la Guerra del Peloponneso (460ca. – 395c. a.C.); nel De rerum natura di Lucrezio (94-50 a.C.), si raccontò l’epidemia di peste ad Atene nel 430 a.C.; in Ponzio di Cartagine si descrisse la Peste di Cipriano (251 – 270 d.C.) che uccise milioni di persone, compresi due imperatori (la colpa, quella volta, fu data ai Cristiani, quali possibili untori), per chiudere con la Historia Langobardorum di Paolo Diacono (720-779), solo per citarne alcune.
Ogni epidemia ha avuto i suoi untori: Manzoni cita un dispaccio firmato da re Filippo IV di Spagna che segnalava quattro spie francesi, sospettati untori. Il 17 maggio alcuni testimoni giuravano di aver visto persone che ungevano di strane sostanze le strade, il giorno seguente in molti punti di Milano si videro le mura e le porte imbrattate di certa sostanza giallognola (forse di uno scherzo macabro o qualcuno che voleva speculare sul prezzo delle case).
Non scherzarono invece chi riempì di botte un vecchio intento a spolverare una panca in chiesa, prima di sedersi. Non mancarono le ipotesi di cospirazioni, ordite dal cardinal Richelieu e naturalmente intervenne la magistratura. Due untori furono anche condannati a morte.
Oggi come ieri il fascino dell’assalto alla (ricchissima) diligenza
I primi ad approfittare della situazione furono i monatti (gli incaricati nel recupero dei cadaveri per le strade) e i falsi monatti (chi si fingeva tale) con il loro campanellino al piede che saccheggiarono e ricattarono ogni casa e ogni famiglia. La pestilenza portò nuove possibilità di investimento: lo stesso Renzo, con il cugino Bortolo, acquistò una filatura a buon mercato (il proprietario era morto di peste). La peste azzerò molte situazioni e aprì nuove possibilità, ma il Manzoni non cercò una spiegazione economica, quanto un insegnamento che identificò la peste come una terribile prova per gli uomini, per cui è inutile cercare una logica nell’azione di un morbo che ha colpito egualmente colpevoli e innocenti, malvagi e buoni. Cambiano i tempi, ma il male rimane un enigma insolubile che ci autoprovochiamo (e non un meritato castigo divino). Boccaccio e Manzoni, per ora inimitabili nel descrivere i tempi della pandemia, tentano di elaborare una spiegazione, condivisibile o meno, al perché di tali tragedie ma, in quanto esseri pensanti, non rinunciano a cercare di capire.
Ma gli scenari odierni non sono – mutatis mutandis – molto difficili dal passato… Oggi noi siamo presi, forse troppo presi, nel richiedere finanziamenti all’Europa, che poi, quando qualche “cattivissimo economista del nord” ci chiede cosa ne faremo di tutti quei soldi, si cade in un pericoloso imbarazzo o in mega risse dove ogni lobby gioca le sue carte per accaparrarsene una quota più consistente.
Dalla pandemia la spinta a ricercare valori e principi morali
Nella nostra Italia, diventa anche difficile ricorrere all’insindacabile giudizio della Magistratura. Non si sentiranno più frasi volte ad impedire osservazioni sulla qualità delle sentenza o del tipo “ho totale ed assoluta fiducia nella magistratura”, anche perché farebbe subito nascere il sospetto di appartenere alla corrente del Palamara furioso and Company, essendo il Paese che più si distingue in Europa per la contraddittorietà tra I° e II° grado (alla faccia della certezza del diritto). Ma qualche sospetto doveva già sorgere anche senza sentire le intercettazioni, ma spiare dal buco della serratura evidentemente affascina sempre. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel 1985 inviò un reparto di Carabinieri in tenuta antisommossa al CSM, pronto a sfondare il portone di Palazzo dei Marescialli. Ed anche il suo predecessore, Sandro Pertini minacciò di scioglierlo. Sergio Mattarella più diplomaticamente, ma non meno duro, invita ad un’autoriforma della magistratura (che non va mai dimenticato, ha lasciato tanti morti sul campo per contrastare terrorismo e mafie varie, ed è quindi bene non fare di tutta un’erba un fascio). Ma forse l’invito di Mattarella va esteso oltre: a tutta la società. Se non si ricreano valori e visioni condivisibili sarà difficile utilizzare i fondi in modo razionale e sarà ancor più difficile dar vita a forme di convivenza accettabili.
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