Askatasuna: alla violenza la città reagisca con la coesione
- Beppe Borgogno
- 2 giorni fa
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Aggiornamento: 19 ore fa
di Beppe Borgogno

Cominciamo dal sentimento: rabbia. Rabbia perché tutto rischia di andare a finire come per tante volte si è temuto che finisse. Per quasi trent’anni l’occupazione di corso Regina 47 è andata avanti tra ambiguità e timori. Le ambiguità degli occupanti: solidali con il quartiere, certo; spazio di cultura, creatività, sperimentazione e aggregazione, senza dubbio. Ma pure luogo collegato a tanti momenti di lotta e insieme di tensione, non sempre e non solo su argomenti sbagliati, ma troppo spesso attraversati dall’uso e dal linguaggio della violenza e dello sfoggio di potenza, che sono sbagliati sempre. Per arrivare infine al delirio di onnipotenza e all’autistica pretesa di impunità di tanti protagonisti di quella realtà. E anche, va detto, le ambiguità di chi nel tempo ha voluto vedere a turno l’uno o l’altro di questi connotati per giustificare le proprie scelte e prese di posizione. E ancora, le ambiguità di chi invece, nel tempo, ha pensato di poter sfruttare la lunga occupazione per la speculazione politica verso il governo della città, senza però prendersi mai la responsabilità di fare nulla oltre alla polemica e alla rendita di posizione.
E poi i timori: che interventi “muscolari” potessero creare problemi seri all’ordine pubblico, che la “guerriglia” sperimentata in Val di Susa arrivasse in città, che tutto questo rischiasse di “saldarsi” con altre tensioni e criticità che negli anni la città ha incontrato. Tanto da indurre per lunghissimo tempo, come ha spiegato qualche giorno fa Sergio Chiamparino parlando degli anni in cui era Sindaco, le stesse autorità dello Stato e le Forze dell’Ordine a sconsigliare interventi risolutivi, qualunque fosse il colore del governo in carica. E soprattutto a sconsigliare di intervenire in assenza di progetti “forti” e condivisi per utilizzare quell’immobile, e di strumenti e figure, di cui oggi c’è sempre meno traccia, in grado di interpretare e contenere il radicalismo sociale.
Ma negli anni tante cose sono cambiate. I poteri pubblici sono ora più deboli, la politica appare più lontana dal dovere di risolvere i problemi sociali e gestirne le tensioni, e sembra semmai più propensa a tentare di ricavarne consenso. Il dibattito pubblico si è polarizzato, riducendo la complessità del mondo di oggi a semplificazioni forzate che creano più vittime che soluzioni. La spettacolarizzazione e gli strappi hanno preso il posto della pazienza e della responsabilità di ricucire.
A pensarci bene, molti dei protagonisti del “dibattito” attorno alla vicenda Askatasuna sono figli di questa evoluzione. O piuttosto, al contrario, di una involuzione.
Da un lato i più giovani esponenti del mondo che ruota intorno al centro sociale sembrano avere scelto (molto probabilmente più dei loro predecessori che in alcuni momenti della loro storia sembravano persino dimostrare una pur ambigua “sapienza” e saggezza politica, e proprio per questo, per molti, andavano guardati con sospetto) una sorta di autoriferita “purezza antagonista” che non accetta mediazioni, e che esalta una specie di astratta “potenza della piazza” come se fossimo ancora negli anni ’70, anche se per fortuna ancora non è così.
Dall’altro, molti esponenti della nuova generazione ora sulla scena politica nazionale e locale sono i protagonisti stessi della polarizzazione, e ad essa devono certamente almeno parte della loro identità, della loro immagine e anche della loro “fortuna”. Esaltando le urla e gli strappi, sorvolando con leggerezza sulle conseguenze.
Anche per questo, probabilmente, c’è chi, anche nel centrosinistra, ha giudicato quasi anacronistica la decisione della giunta Lo Russo, due anni fa, di tentare di recuperare l’immobile di Corso Regina senza sgomberi forzati. Al Sindaco e alla sua giunta va riconosciuto almeno il merito di averci provato, per tentare di evitare quel destino sempre temuto davanti a cui la città si trova oggi.
Non c’è dubbio che quel percorso ambizioso e rischioso avesse bisogno di tempi più rapidi, di maggiore precisione amministrativa, ma la pubblica amministrazione purtroppo ha tempi e difetti che non dipendono sempre da chi la guida (a proposito, non sarebbe male se il Ministro competente prima di autocandidarsi a Sindaco se ne occupasse). E che servissero interlocutori affidabili e almeno rappresentativi di qualcosa: quei famosi “garanti” di cui tanto si è parlato, e a cui probabilmente è stata affidata una responsabilità politica eccessiva ed impropria, non è affatto chiaro se abbiano garantito qualcosa e che cosa. Se ne è parlato più di una volta, anche su queste pagine, senza nascondere dubbi e preoccupazioni.[1]
Insomma, di errori ce ne sono stati di sicuro. Ma altrettanto di sicuro questo è stato il tentativo (quasi l’unico sinora se si eccettua quello che portò l’amministrazione Chiamparino a restituire alla città almeno il cortile dell’immobile, dove ormai da circa una ventina d’anni si svolgono attività per le scuole ed il quartiere) di risolvere una questione, certo non di coprire violenze e violenti, come il dibattito violento e polarizzato di oggi vorrebbe cercare di dimostrare.
Ora è avvenuto lo sgombero, e pure alla vigilia di Natale: la scelta del periodo è perfetta per aggiungere un tocco di spettacolo.
I violenti hanno ora un nemico, cioè quello di cui hanno bisogno. Anzi, più di uno: tra i nemici c’è anche il Sindaco che ci ha provato, del cui tentativo a loro probabilmente non fregava nulla, e nemmeno del dialogo, ma che ora è un “infame”.
Cosa ci attende? Probabilmente, chissà per quanto, la presenza “militare” dello Stato che blinda un pezzo di città, non certo nella parte che avrebbe più bisogno di sicurezza e presenza dello Stato. E dall’altra parte il rischio, anche qui chissà per quanto e chissà come, di violenze di cui i protagonisti hanno dimostrato persino di ignorare la gravità, come nel caso dell’assalto a La Stampa.
Era davvero inevitabile, dopo 30 anni passati a cercare di evitarlo? E se davvero tutto questo c’entra con il futuro governo di Torino, tra chi vuole mettere le mani sulla città e chi vuole bruciarla si deve mettere in mezzo qualcosa, o a pagarne il prezzo saranno i cittadini.
Intanto, come il Sindaco ha ribadito nei giorni scorsi, restituire l’uso di quell’immobile alla città deve rimanere un obiettivo, nei modi e nelle forme che l’amministrazione deve decidere in fretta. Per farne un luogo di cultura, di aggregazione, di pluralismo e di libertà, a disposizione del quartiere e di chi ci vive. Quello era l’obiettivo di interesse reale, e non la “legalizzazione” di qualcosa o di qualcuno. Ma occorre che questo accada, per quanto possibile, davvero in fretta, altrimenti quell’edificio resterà semplicemente il simbolo per una campagna elettorale, la prossima, che non si annuncia certo quella ideale per una città che ha bisogno soprattutto di lavorare per il proprio futuro. E chissà che i famosi “garanti”, liberati dall’incombenza di un “dialogo” che non c’è stato, e magari anche qualcun altro stavolta non possano, mettendoci del loro, dare davvero una mano alla città.
Meglio ancora sarebbe se questa vicenda facesse capire che per amministrare Torino oggi non basta “fare tutto bene”. Non sono tempi normali: per reggere l’urto occorre essere “partigiani”, chiamare la città a “fare squadra”, trasmettere forza, sicurezza, far capire che Torino non è una preda da conquistare.
C’è chi in questi giorni ha persino paventato una sorta di complotto contro Torino: il progressivo disimpegno di Stellantis, le vendita di Gedi che la indeboliscono ancora. E in materia di sicurezza, la presunta scelta del governo nazionale di sfruttare ancora di più questo argomento, come dimostrerebbero, secondo alcuni, la mancata protezione de La Stampa, la sostituzione del Questore, l’intervento clamoroso su corso Regina 47 durante le feste natalizie.
Se qualcuno ha elementi per sostenere questa tesi li dica. Altrimenti, unendo i puntini per capire quale sia il disegno, se intanto non c’è uno scatto della città e di chi la guida, il rischio è che emerga piuttosto una immagine di debolezza e di impotenza. Il che, per oggi e per domani, fa ancora più rabbia.
Note













































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