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L'EDITORIALE DELLA DOMENICA. Storia di Enrico e l'importanza delle risposte

di Guido Tallone


Simone (nome di fantasia) ha quindici anni. Frequenta la classe prima dell’Istituto di Istruzione Superiore Statale della sua città, indirizzo: “Servizi per la sanità e l’assistenza sociale”. I genitori avrebbero preferito il Liceo tradizionale, ma – alla fine – si sono arresi, vista la sua determinazione nel voler prendere quel preciso orientamento formativo.

Dopo due mesi di lezioni, Simone desidera porre una precisa domanda ai suoi insegnanti. Attende il momento giusto. Sceglie il docente che gli sembra più adatto al quesito “antropologico” che ha in testa e, in una mattinata particolarmente calma, “ferma” la docente di Diritto (una delle più severe, ma anche accogliente, capace di ascoltare senza fingere attenzioni facendo, in realtà, altro) e con un po’ di imbarazzo le chiede se la può disturbare un istante. “Dimmi Simone. Ti ascolto”, replica l’insegnante con tono gentile e accogliente. Simone è un po’ impacciato. Ha paura di porre un interrogativo sciocco o non opportuno: “Se la domanda è sbagliata non mi sgridi. Però è da mesi che mi gira nella testa e io, da solo, non sono ancora riuscito a darmi una risposta: «Perché i genitori di Enrico lo accompagnano tutte le mattine a scuola, con noi, se lui in classe non fa niente? Non capisce, non segue le lezioni, non fa i compiti, non viene mai interrogato e quando si stufa di stare in classe lo portate fuori? Perché i disabili vengono in classe con noi?»”. Al termine del discorso formulato tutto di seguito e senza respirare, Simone si sente più libero. “Ci sono riuscito! – pensa tra sé e sé - Finalmente mi sono tolto il dente; adesso, speriamo che la Prof. non mi sgridi”.

Simone non lo sa ancora, ma fare domande non dovrebbe mai portare al rimprovero. Soprattutto a scuola, istituzione chiamata ad insegnare a quanti la frequentano a qualsiasi titolo (alunni, docenti, famiglie, territorio, etc.) che la forza delle domande è data dal fatto che non esistono quesiti sbagliati. Purtroppo, a volte, ciò che è errato, grossolano, superficiale o impreciso è la risposta. Ed è di queste che dobbiamo aver paura, non delle domande.

Simone ha individuato l’insegnante giusto: la professoressa di Diritto lo mette subito a suo agio. Lo rassicura. Elogia la sua profondità. Lo tranquillizza sulla legittimità della domanda, ma, subito dopo, lo spiazza: “Sai che è proprio una bella riflessione quella che proponi? Che ne dici se la facciamo insieme – come classe, intendo – e rivolgiamo l’interrogativo al papà di Enrico? Io lo conosco. Lo vedo tutte le mattine. Gli chiedo se può dedicarci un’ora del suo tempo in classe e ci confrontiamo con lui. Che te ne pare?”.

Simone è senza parole. “E se il papà si offende per questa domanda? E se si sente discriminato?” – si dice mentalmente. Alcuni insegnanti – però – hanno la capacità di leggere il cuore e la mente dei loro alunni: “Vedrai Simone, il papà di Enrico non si sentirà offeso per questa tua bella curiosità e sarà contento di spiegarci il suo punto di vista. E sarà contento anche di farlo in classe: alla presenza di Enrico.”.

Il tempo tecnico di preparare l’incontro e dopo due settimane il papà di Enrico si presenta nella classe di suo figlio (e di Simone!) accompagnato dalla prof. di Diritto. Quel giorno, in classe, il registro elettronico non registra nessuna assenza. Per il papà è commovente vedere suo figlio nella sua classe, nel “suo” ambiente scolastico, in mezzo ai suoi compagni. In un segmento di vita ordinaria o, come si dice spesso in modo superficiale, normale. Ha gli occhi che sorridono, ma vuole contenere l’emozione.  Il tempo di una veloce carezza al figlio per poi rendersi disponibile alle esigenze della classe. Chi conduce è l’insegnante. La quale dopo aver riportato a tutti l’interrogativo di Simone, cede la parola al docente-provvisorio-papà-di-Enrico per la sua risposta.

 In classe c’è un silenzio assordante. Gli studenti sono solidali con la domanda posta da Simone, ma – come lui – non riescono a capire cosa possa dire il papà di Enrico. Non sono disturbati dalla presenza di Enrico; non vivono con disagio il suo essere in aula con loro; provano anche simpatia per questo compagno di classe che è davvero “speciale”. Ma – ecco la questione di fondo – perché viene a scuola se impara poco o niente?

Il papà di Enrico prima di prendere la parola fissa la classe con delicatezza e con profondo senso di rispetto per un ambiente che per lui – ma non solo per lui – è e resta sacro per il fatto di essere “scuola”: il luogo per eccellenza dell’Imparare Insieme (le uniche due grandi “I” che caratterizzano la Scuola). Ringrazia la docente per l’invito. Elogia Simone per uno sguardo che sa scendere in profondità e per la maturità del chiedere aiuto “per una domanda a cui non sa rispondere da solo!”. E sgombrato il campo da premesse sostanziali e non solo formali, il papà di Enrico passa subito al contrattacco: “Avete ragione voi: Enrico a scuola non impara molto (o forse quasi nulla), ma noi – mamma e papà – non lo mandiamo in classe con voi perché lui apprenda chissà quale materia, ma perché lui insegni!”.

Il silenzio della classe si fa più profondo. Più intenso. E perché il senso della sua affermazione sia chiara, il papà di Enrico passa alle spiegazioni.

“Vediamo un po’ che cosa insegna Enrico quando è in mezzo a voi: 

lui, lo sapete, non parla e, dunque, non saluta. Con il suo silenzio ed il suo simpatico autismo vi chiede, in pratica, di salutarlo per primi. Per scoprire poi, con piacevole sorpresa, che a chi lo accarezza anche solo sul braccio per dirgli “ciao” lui offre il palmo della mano aperto. Imparare a salutare per primo è una grande lezione che Enrico impartisce a tutti coloro che lo avvicinano: non è un bel risultato di maturità?

Vado avanti. Enrico passa quasi tutto il suo tempo sulla sedia a rotelle. Le sue gambe sono fragili e lui, in piedi, ha una debole autonomia. Se quando lui è in piedi non fai attenzione e lo urti, per fare un esempio, lui cade e resta a terra perché non sa chiedere aiuto. Cedere il passo a chi è più fragile e più debole, non è un gran bell’insegnamento? Chi impara a prestare attenzione a chi ha un fragile equilibrio, non è umanamente più completo rispetto a chi vede solo e sempre sé stesso?

Enrico non sa esprimere il suo malessere con le parole. Ci provoca perché chi gli è vicino impari a capire la sua comunicazione non verbale e ad intercettare tanto i suoi bisogni (fame, sete, noia, etc.) quanto il suo star male per offrirgli quell’aiuto che non è in grado di chiedere. Prima domanda: solo Enrico non sa dire a parole il perché del suo star male? Oppure anche noi a volte siamo chiusi in un mutismo che non ci permette di comunicare agli altri il perché del nostro soffrire interiore? E se il suo “silenzio” ci insegna a diventare esperti nel capire l’altro (e noi stessi!) oltre le parole? Quante volte la vera forza dell’amore non è data dalle parole dette, ma dai silenzi dell’altro intercettati, ascoltati, interpretati e, magari, anche esauditi. Anche questo è insegnamento profondo, denso e … un po’ raro.

Enrico ci ricorda poi, senza tanti giri di parole, che “normale” è una parola-spia che ci avvisa che c’è del razzismo in agguato. Anche perché troppo spesso è usata per escludere qualcuno dalla cerchia di chi insegue la perfezione e che a forza di selezionare i compagni di viaggio crea le prigioni dell’individualismo triste che tutti conosciamo. E siccome si vede solo ciò che si conosce, Enrico prima vi offre la conoscenza della sua disabilità e subito dopo vi invita a scorgere altri volti, altre storie e altri soggetti che, vicino a voi, vivono altre forme di disabilità che, senza l’allenamento che lui vi offre, potreste non vedere, non incontrare o non voler vedere. E ci insegna a vedere le nostre imperfezioni senza condannarle. In pratica Enrico ci insegna a volerci bene così come siamo, come vorremmo essere!

Faccio un altro esempio. Per la gita di classe Enrico vi obbliga a cercare un percorso e una località adatti a chi è diversamente abile e per l’uscita sulla neve vi invita a cercare un istruttore che possa permettere anche lui l’emozione dello sciare sulla neve con gli sci! Non è anche questa una gran bella lezione di attenzione all’altro e di impegno perché l’uguaglianza non diventi mai omologazione, ma sempre e soltanto la straordinaria capacità di dare a ciascuno ciò che lui può accogliere, vivere o valorizzare?

Cosa che non molti sanno e che a volte non conoscono nemmeno i candidati al Parlamento Europeo: il motto della nostra cara Europa è Uniti nella diversità (usato per la prima volta nel 2000, anno di nascita di Enrico). C’è qualcuno che può spiegare questo motto meglio di un ragazzo diversamente abile in classe con i suoi coetanei che studiano con lui e imparano anche da lui? Enrico ci dice, senza parlare, che lui è “diverso”, ma non per questo vuole restare lontano da chi parla, ascolta, gioca, studia, legge e impara in un modo che non è il suo. Capire il motto dell’Europa in classe, al fianco dei tanti Enrico che ci rendono migliori, non è un piccolo-grande miracolo che le classi italiane offrono ai loro alunni?

In un mondo in cui troppi rincorrono la perfezione, l’eccellenza, il vincere ed il primeggiare sempre e senza mai perdere, Enrico vi presenta l’altra faccia della medaglia della vita: quella in cui è visibile “anche” l’imperfezione, la fragilità, la vulnerabilità e la possibile sconfitta. Enrico ricorda a voi, suoi compagni di classe, ma anche a noi adulti, che solo chi tiene insieme questi due elementi (il desiderio di vincere e la possibilità della sconfitta) è libero. Pregi e difetti sono impastati in noi in modo indivisibile. A chi non accetta la sconfitta, Enrico offre la carezza che insegna a perdere per diventare migliori. A chi vede solo i suoi difetti e non si vuole bene, Enrico consegna il prezioso e saggio insegnamento dell’imparare a vedere anche le proprie parti positive. Ho ragione quando dico che Enrico è anche un insegnante?

La presenza di Enrico in classe, inoltre, ricorda a tutti noi che il “costruire” scuola e classi aperte e “attrezzate” (con personale specializzato) per accogliere e per gestire anche gli alunni disabili, è parte del sistema legislativo dello Stato Italiano che ha ratificato, nel 2009, la Convenzione ONU su diritti delle persone con disabilità (firmata nel 2006). Il che significa – ecco un ulteriore insegnamento che ci consegna un diversamente abile in classe – che per dare forza a buoni sentimenti e a pratiche di solidarietà intelligenti non bastano le buone intenzioni. Gli italiani a livello emotivi sono tutti solidali. Se poi il disabile è in classe con mio figlio, se abita nel mio condominio o se frequenta la mia spiaggia, il bar che frequento, etc. etc., allora alla solidarietà emotiva si affianca il “però”: “Io sono solidale e non ho nulla contro i disabili, però quel disabile nella classe di mio figlio di fatto rallenta il suo apprendere!”, dicono i professionisti del “ma” e del “però”.

A questi, per fortuna, risponde la legge per ricordare a tutti che proprio perché la solidarietà emotiva è sana e doverosa, non regge nessun “ma”, nessun “però” e il bisogno di chi è diversamente abile viene chiamato diritto che la legge e la legalità devono garantire, assicurare, promuovere e difendere. Anche perché se i bisogni dei cittadini non diventano diritti, prima o poi qualcuno li intercetta e li esaudisce come favori e come merce di scambio per irrobustire illegalità e corruzioni. Senza la forza della legge, i sentimenti hanno la durata della neve al sole e sono esposti ai capricci di chi per ricerca di consenso o per ignoranza colpevole vorrebbe sostituire la pratica dell’inclusione con il ritorno alle vecchie e ghettizzanti classi differenziali.

Intuisco dallo sguardo della docente, che la capacità di apprendere e di recepire dei ragazzi è al massimo. “I quali lo devo ammettere – puntualizza l’insegnante – non li ho mai visti così attenti e partecipi alla lezione.”.

Non c’è spazio per domande o per ulteriori approfondimenti. E grazie ad Enrico saranno possibili altri incontri per riprendere la chiacchierata e per ulteriori confronti. Faccio per congedarmi dalla classe, quando vedo il braccio alzato di una ragazza che chiede la parola. La prof. la invita a parlare e lei, rivolgendosi a me con delicatezza e garbo, mi dice “Mi scusi signor papà di Enrico. Volevo dire solo una cosa. Io sono la compagna di banco di Enrico. Grazie per averci aiutato a capire quello che Enrico insegna a noi. Ma anche lui impara tanto a scuola. Lo capisco da come sorride quando è con noi”.

Per fortuna le scuole sono ricche di corridoi. Il papà saluta velocemente. Ringrazia e al fondo del corridoio asciuga la lacrima che gli ha rigato la guancia.

                                                                                                               

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