Personalismi e protagonismi nemici primi della diplomazia
di Germana Tappero Merlo |
La personalizzazione della politica, sia essa interna che internazionale, è ormai il trend dominante. Un tempo apparteneva esclusivamente a sovrani e dittatori, personalità dal forte carisma e dalle grandi ambizioni, in grado di trascinarvi le folle, entusiaste o antagoniste, ma zittite a forza. Ed erano per lo più progetti di dominio assoluto e di guerre, come testimoniato, nel solo secolo scorso, dagli stermini dei due conflitti mondiali e da quelli limitati, ma sanguinari, di un illusorio periodo di pace durato circa settant’anni.
La comunità mondiale, anche se aiutata dalla deterrenza nucleare, aveva infatti appreso il confronto diplomatico multilaterale, da cui i grandi consessi per il controllo degli armamenti e la risoluzione dei conflitti, con accanto anche i vantaggi economici, quasi per tutti, della globalizzazione, con le innovazioni tecnologiche in grado di far progredire il benessere dell’umanità. E i protagonismi individuali sembravano esclusiva dei regimi canaglia e quelli proliferatori di armi di distruzione di massa, come i superstiti Saddam Hussein e Kim Jong-un, per citare i più attivi. L’illusione delle primavere arabe
Le tentate rivoluzioni delle primavere arabe del 2011, tuttavia, sembravano aver spazzato via definitivamente quegli ultimi malefici soggetti che del loro incontestabile potere avevano fatto uno strumento di persuasione e di soggiogamento delle loro folle, motivo di orgoglio nazionale per alcuni e di sofferto dissenso per altri. La comunità mondiale si era convinta che il multilateralismo e la fiducia nei valori della democrazia, anche se imposta con la guerra, avessero finalmente avuto il sopravvento per un bene globale, certamente da costruire e in maniera consensuale, ma finalmente fattibile. Nulla di più sbagliato. A solo un decennio da quelle rivolte, l’agonia della Siria e dell’Iraq, così come la babele armata della Libia, ne sono gli esempi più eclatanti. Ma non si tratta solo del loro esclusivo fallimento. A metterci lo zampino è ancora una volta il protagonismo, la smania di ruolo dominante di innumerevoli soggetti, anche oltre i confini mediorientali e nordafricani. Libia: l’ascesa di Maitiq e la “resurrezione” di Haftar
Le cronache dalla Libia di questi giorni parlano di un generale Khalifa Haftar della Cirenaica, dato per vinto e spacciato innumerevoli volte, ritornare ora in auge come un’araba fenice anche grazie all’accordo con il vice premier della ‘nemica’ Tripoli, Ahmed Maitiq, per una ripresa della produzione di petrolio del più grande impianto nazionale libico, quello di El Sharara, a sud del Paese in balia delle scorribande delle milizie armate dal Fezzan. Un modo per Haftar, appoggiato dalla Russia di Putin, dalla Francia di Macron e dagli Emirati, di porgere la mano alla fazione avversaria, che non riconosce un Sarraj destinato, sembra, al ritiro e al declino, quanto invece questo ambizioso politico, Maitiq come l’unico interlocutore. Al contempo, l’Italia e la nota vicenda dei pescatori di Mazara del Vallo, non tanto per la loro liberazione, frutto di un complesso lavoro di intelligence, quanto con la visita ufficiale del suo Premier e del Ministro degli esteri, ha avallato un riconoscimento internazionale ad Haftar con ruolo di padrone di quella parte della Libia, con Roma illusa di avere così un ruolo di primo piano, riconosciuto e decisivo nelle sorti di quel Paese. L’uso della forza militare nel complesso gioco diplomatico
Ma i player veri in Libia (e altrove) sono altri, e tutti riconducibili a singoli soggetti, individui totalizzanti, come l’egiziano al-Sisi che da giocatore pare volersi ora porre come arbitro del complesso gioco libico fra Tripolitania e Cirenaica. Da qui, movimenti di diplomatici egiziani verso Tripoli e il governo di al-Sarraj – che il Cairo non riconosce da anni – che sembrano preludere a trattative di dialogo. Se non fosse che la Turchia di un altro protagonista dall’ego smisurato, qual è Erdogan, ha inviato a Tripoli batterie missilistiche e sistemi radar, ha esteso la missione delle proprie forze armate per altri 18 mesi, continuando a sostenere con consulenza ed addestramento le forze armate libiche della Tripolitania. La guerra sembra destinata a perpetuarsi e sullo sfondo, il braccio di ferro, in un rapporto fra competizione e collaborazione nei più svariati scenari di conflitto, dalla Libia, appunto, alla Siria al Nagorno-Karabakh, fra i due duri del secondo decennio che sta per aprirsi, Erdogan e Putin. Ma questa tendenza alla personalizzazione estrema della politica mondiale non risparmia il mondo occidentale, di cui Macron con quanto sta manovrando indipendentemente, dalla Siria prima e ora Egitto, Libia sino all’Africa subsahariana, è testimonianza a noi più vicina. Le rinunce di Obama e i contraccolpi sullo scacchiere nordafricano e mediorientale
Della personalizzazione della politica Trump è stato l’esempio più eclatante, anche se la scelta di un’America first ha limitato la scena del suo protagonismo ai confini statunitensi. Ma ancor più grave è stato l’abbandono del suo predecessore a credere nel multilateralismo: non sono certo bastati gli accordi sul nucleare iraniano a fare di Obama un protagonista della politica mondiale. Dalla rinuncia a gestire in maniera autorevole, militarmente e diplomaticamente, la crisi siriana ai sanguinosi pasticci libici, da una guerra in cui non credeva, ma ha permesso che accadesse, alla criminale gestione dell’omicidio del diplomatico Christopher Stevens a Bengasi, e tanto altro ancora, tutti segnali di una rinuncia al confronto e all’azione corale con gli alleati, e quindi alla leadership che ci si aspetta da una superpotenza militare che si vuole anche democratica e, con l’autorevolezza dei suoi principi, anche mediatrice. Ma di fondo vi è ancora un altro protagonista, ossia il perseguimento del puro interesse economico, e che ormai prevale in ogni aspetto della politica internazionale: che siano forniture di gas e idrocarburi o commesse di fregate o altri sistemi bellici, nel loro nome si fa l’altra vera, concreta ed influente politica estera. Il cinismo crudele degli interessi economici: l’esempio del caso Regeni
Malata di strabismo, in nome del fatturato, questa politica ignora tragedie umane come quella della guerra in Yemen o le responsabilità nel supporto al terrorismo di nazioni come il Qatar, per citarne uno, continuando nella lucrosa fornitura di materiali bellici ai Paesi protagonisti di quelle instabilità, come l’Arabia Saudita. Non da meno all’Egitto (è del 23 dicembre la consegna da parte dell’italiana Fincantieri della prima fregata Fremm Spartaco Schergat alla Marina del Cairo) permettendo però che la ricerca di giustizia di omicidi come quello di Regeni, come prima ancora e in tutt’altra situazione, quello di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, si prolunghino in un tempo infinito, offuscando verità e ricordi. È l’ennesima conferma che la vera politica estera sta altrove come, appunto, nei fatturati della Fincantieri e aziende di eccellenza italiane; e che se l’Italia ha ancora una politica nel Mediterraneo, è quella della strategia di derivazione dell’Eni che mantiene rapporti con le tribù libiche che controllano le zone petrolifere, o sa rapportarsi con i militari algerini o partecipa alla scoperta e sfruttamento del giacimento egiziano di gas di Zohr. Tutto il resto è ormai diventata una mera fiera delle vanità umane, senza principi etici da salvaguardare ma solo protagonismi individuali da esibire.
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