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Pensioni e Pubblica amministrazione, il miraggio delle riforme

di Emanuele Davide Ruffino e Cinzia Bosso|

Alla fine della cosiddetta “Prima Repubblica” qualcuno fece correre anche l’idea di costituire il “partito dei pensionati”. Idea non peregrina, almeno sul piano della coesione numerica. Una coesione che oggi non esiste, perché lavoratori e imprese sono prigionieri della bolla dell’incertezza, in assenza di decisioni certe su quando e come accedere alla pensione. E di questo passo, è possibile che si possa formare il movimento del “Diteci almeno quando poter andare in pensione”, cui potrebbero aderire anche tutte le imprese che vogliono programmare le loro azioni nel lungo periodo, alcune delle quali pronte a pianificare investimenti decennali, ma, paradosso della conseguenza, senza sapere su quanti e quali dipendenti potranno fare affidamento fra otto mesi, quando scadrà quota 102. Proposte, soluzioni, contraddizioni

Il Conseil d’Orientation des Retraites, ente pubblico di ricerca specializzato nello studio del sistema pensionistico, afferma che, se da un lato il prolungamento dell’età lavorativa permetterebbe allo Stato di fare cassa, dall’altro una larga parte di quei risparmi andrebbe a coprire la rinnovata necessità di sussidi di disoccupazione e altre forme di sicurezza sociale, finendo così per ottenere un effetto sostanzialmente nullo. E il saldo diventa negativo se si considerano anche i rimborsi per le giornate di assenza dal lavoro per malattia, decisamente più frequenti, man mano che cresce l’età del soggetto. Il risparmio nel ritardare la data di pensionabilità viene annullato dai maggiori esborsi a carico dell’Inps e dalla minore produttività che inevitabilmente scende con il passare dell’età (e l’Italia è già agli ultimi posti in Europa) causa la riduzione delle capacità funzionali e il deterioramento delle condizioni di salute. In particolare, aumenta la durata dei congedi di malattia di uno o più mesi, mentre scendono quelli di pochissimi giorni che iniziano il lunedì. Per non rovinare le prospettive dei giovani li si obbliga a rimanere disoccupati. Un controsenso. Infatti, mentre l’Europa recupera i livelli occupazionali ante covid, (il 68,4%, contro il 64,1%), l’Italia, pur partendo da un livello più basso è ancora sotto (era al 59% ed ora è al 58,2%, fonte Eurostat). Anche il cosiddetto “scivolone Brunetta”, ipotizzato per rinnovare la Pubblica amministrazione, si è perso per strada. Eppure se si osservano i dati, il problema sussiste: l’età media nella PA supera i 50 (in rapida crescita, mentre lo stesso parametro in Francia o in Gran Bretagna arriva a malapena a 30 anni). In Italia, gli Under 30 sono meno del 5%, mentre gli Over 60 sono oltre il 16%. Il dato più preoccupante si registra nell’osservare il livello di istruzione: nonostante la dominanza di settori come l’istruzione e la sanità, il 60% dei dipendenti pubblici non è laureato e tra questi ultimi, la stragrande maggioranza (due su tre), possiede un titolo di studio nell’area giuridico-amministrativa, con conseguente accentuazione degli aspetti burocratici su quelli organizzativi-funzionali. L’ipotesi di Cesare Damiano

In questo contesto, un blocco pensionistico dai confini temporali incerti, aggraverebbe ulteriormente la situazione, rendendo ancor più inefficiente il sistema Paese. Diventa infatti complicato, se non illusorio, parlare di digitalizzazione o altre forme di rinnovamento tecnologico (le procedure concorsuali, tendono inoltre a favorire candidati con profili “generalisti”, contrariamente all’elevato grado di specializzazione che l’ambiente digitale richiederebbe). Superato il DEF, il problema è rinviato alla manovra autunnale, il mondo scientifico-economico ha il tempo per ragionare, senza i riflettori accesi, in modo da poter confrontare gli effetti che le possibili proposte possono produrre sull’economia. Sulla scia del presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, l’ex ministro ed ex presidenze della Commissione lavoro alla Camera, Cesare Damiano ha ipotizzato una soluzione sostenibile: età pensionabile a 63 anni con 35 o 36 anni di contributi (con penalizzazioni intorno al 2% per anno di anticipo), introducendo anche il concetto di separare “la previdenza dal costo dell’assistenza e calcolare l’incidenza della spesa pensionistica sul Pil al lordo delle tasse”, il giogo che blocca l’attuazione di ogni possibile riforma. Dall’America all’Europa, esperienze a confronto

In America dove tutto si riduce al rapporto tra quanto versato e l’aspettativa di vita, la Covid e la maggior consapevolezza della caducità della vita stanno portando milioni di americani a accarezzare l’uscita dal lavoro con molti anni di anticipo. Secondo Bloomberg, 2,7 milioni di persone con un’età intorno ai 55 anni ha chiesto di andare in pensione per potersi godere liberamente la vita, anche se con qualche dollaro in meno. Il concetto è stato ripreso anche in Italia, ma essendo il nostro un Paese fondamentalmente assistenzialista, si ha il fondato sospetto che sul sistema si abbatta un’infinità di richiesta difficile da gestire. Ci spiega perché le varie proposte di anticipo, insieme alle penalizzazioni, prevedano limiti reddituali per aderire all’ipotesi: due o tre volte la pensione minima, tanto per evitare che il soggetto con una pensione bassa debba poi essere nel tempo assistito dal sistema. Anche nella ricca Germania le pensioni (deutsche rentenversicherung) sono mediamente più basse che in Italia, poiché la percentuale dei contributi versati ammonta, nella quasi generalità dei casi, al 19,5% dello stipendio contro il 33% circa da noi. La pensione in Germania è, da sempre, legata ai contributi versati, metà a carico del lavoratore, metà a carico del datore di lavoro e il sistema di calcolo è sempre stato quello contributivo, il che comporta un importo della pensione mediamente più basso che in Italia, meno del 50% della retribuzione, specie se si lascia il lavoro in anticipo accettando una riduzione dello 0,3% per ogni mese. Situazioni simili si ritrovano in Svezia e Finlandia dove l’età pensionabile è flessibile: una persona può richiedere la pensione entro una certa fascia di età che va per il primo paese dai 62 ai 68 anni e per il secondo dai 63 e nove mesi ai 68 (solo in Grecia e Danimarca l’età pensionabile è fissata rigidamente a 67 anni). Gli esempi potrebbero continuare, ma quello che emerge è la disponibilità dei vari sistemi occidentali a lasciare ampia facoltà di scelta (ovviamente riproporzionando i redditi percepiti). Mentalità che non sembra ancora prendere piede nel “dirigismo” del sistema italiano.

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