Matteo Renzi e le 120 giornate di Sodoma
di Stefano Marengo |
Il “rottamatore” per antonomasia, presentando il suo ultimo libro, ha rilanciato la sua battaglia contro il reddito di cittadinanza. Questa volta, però, lo ha fatto senza curarsi di dissimulare i suoi assunti ideologici, anzi li ha esibiti platealmente. “Voglio mandare a casa il reddito di cittadinanza, ha detto, perché voglio riaffermare l’idea che la gente deve soffrire, rischiare, provare, correre, giocarsela, se non ce la fai ti diamo una mano, ma bisogna sudare ragazzi”. La prima considerazione che viene in mente è che la lectio magistralis sul “merito attraverso la sofferenza” viene da un giovin signore da Rignano sull’Arno che, per sua fortuna, non è mai stato angustiato dal problema di mettere insieme un salario da quattro o cinquecento euro al mese o come si usa dire in barriera “il pranzo con la cena”. Prima a bottega nell’azienda di famiglia, poi percettore di consistenti indennità pubbliche e, di recente, di lauti cachet d’origine saudita, è da sempre, e a tutti gli effetti, un privilegiato. Viene allora da chiedersi che valore possano mai avere le sue parole, e quale soprattutto dove risieda la sua credibilità.
Ma tutto ciò è solo un aspetto del problema, e neanche il principale. Il fatto è che, pronunciando quelle parole, il giovin leale dello “stai sereno Enrico” ha reso evidente il nucleo di verità del neoliberalismo, vale a dire l’idea che il diritto a vivere, o quantomeno a vivere dignitosamente, non può, né deve essere garantito in partenza, ma va conquistato individualmente di giorno in giorno, al prezzo di sacrifici, fatica e, appunto, sofferenza. In altre parole, è la tesi che la società stessa non è che uno stato di guerra perpetua di tutti contro tutti e solo chi riesce a spuntarla, per forza o per astuzia, è davvero meritevole. Qualche anno fa, sempre lo stesso giovin politico, che nel 2014 promise 10 miliardi di euro in tre anni per mettere in piedi le scuole… (luogo in cui si insegna o si dovrebbe insegnare l’educazione civica), in un discorso pubblico disse: “Siate inquieti e arroganti”. Versione maccheronica dello “stay hungry, stay foolish” del patron di Apple, Steve Jobs. E proprio imprenditori “rampanti” come Steve Jobs o Jeff Bezos o, ancora, Elon Musk sono proposti come modello che tutti dovrebbero seguire, che tutti dovrebbero ambire a realizzare, pena l’essere considerati sconfitti in partenza.
Una simile visione del mondo tende inevitabilmente ad essere insieme una concezione antropologica iperindividualista e una strategia di colpevolizzazione: se non realizzi il modello di successo, infatti, sei evidentemente un fallito, e le colpe del fallimento sono solo ed esclusivamente tue. Tali, quarant’anni fa, erano le premesse della “rivoluzione conservatrice” della signora Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito, e del presidente americano Ronald Reagan, e su queste basi venne avviato lo smantellamento del welfare e dei diritti sociali, nella convinzione che, lasciando libero sfogo all’avidità, si sarebbero create le condizioni perché ciascuno potesse arricchirsi. La storia di questi decenni si è incaricata di sbriciolare queste speculazioni. Nel mondo in cui viviamo la divaricazione tra ricchi e poveri, a livello globale e di singoli paesi, non solo non è diminuita, ma è drammaticamente aumentata; anche nelle regioni più avanzate crescono sacche di povertà assoluta e relativa, talvolta di miseria; il lavoro, sempre più precario e sottopagato, è regredito a passi da gigante a una condizione ottocentesca, vera e propria riserva di caccia per l’arricchimento degli imprenditori “meritevoli”.
Verrebbe da chiedersi perché, in un mondo solcato da così profonde ingiustizie, c’è chi ancora si ostina a proporre l’idea che “la gente”, per guadagnarsi il diritto a una vita dignitosa, “deve soffrire”. Una “ricetta” che non funziona più, che non ha mai funzionato. Il problema, però, non sta soltanto in assunti teorici marcatamente sbagliati. La verità è che, se presa nella sua globalità, nessuna società è mai stata ricca come quella attuale; tuttavia per centinaia di milioni di persone la precarietà e la povertà, l’insicurezza e la miseria, invece di diminuire, sono cresciute e continuano a crescere. Tutte queste persone, un giorno non lontano, potrebbero accorgersi che quello a cui prendono parte è un gioco truccato, che la ricchezza che producono finisce sempre, sistematicamente, nelle tasche dei soliti, pochi ricchi. Quel giorno queste persone potrebbero voler rivendicare il loro diritto a utilizzare quella ricchezza per accedere davvero a una vita dignitosa. Quel giorno, se mai dovesse arrivare, a essere messo a repentaglio sarà il capitalismo stesso e la sperequazione sociale su cui si fonda.
Allora, forse, è proprio per disinnescare questo rischio che ancora oggi si ricorre alla retorica del “merito attraverso la sofferenza”, che nel suo intimo non intende affatto promuovere il miglioramento della “condizione umana”, ma solo e unicamente conservare l’esistente, il sistema di produzione del capitalismo avanzato con le sue disuguaglianze e ingiustizie e con la sua distribuzione del potere oscenamente asimmetrica. È evidente che le strategie del discorso neoliberale sono cambiate negli anni. Un tempo il thatcherismo e il reaganismo si sostanziavano della medesima ideologia, ma ancora potevano ammiccare ipocritamente a un futuro di prosperità. Oggi quel futuro si è definitivamente rivelato per quello che è e ci rimane soltanto il cinico imperativo della sofferenza. “Voglio riaffermare l’idea che la gente deve soffrire”. La sofferenza come archetipo, come trascendentale che dà forma all’essere umano e rispetto alla quale non si offre alcuna alternativa.
Oggi il neoliberalismo è ormai un’ideologia al crepuscolo che, smessi tutti i fronzoli e gli abbellimenti, fa mostra di tutta la sua brutalità. E le parole, sempre di quel giovin di parola, che aveva annunciato di chiudere con la politica se avesse perduto il referendum, mostrano, in particolare, una perturbante somiglianza con “Salò e le 120 giornate di Sodoma”, la rivisitazione cinematografica del romanzo del marchese de Sade in cui Pier Paolo Pasolini mette in scena la fine del fascismo raccontando la vicenda di quattro potenti che, rapito un gruppo di ragazze e ragazzi, sfogano su di loro le più oscene perversioni. Dopo un ventennio di ubriacatura ideologica, quando la sbornia sta per terminare, ecco la violenza gratuita, il potere ormai cieco che dà sfogo alla sua anima più nera per affermare ancora una volta se stesso. Per il neoliberalismo il discorso è analogo: dopo decenni di falsi miti, quando le promesse fatte non sono più credibili, arriva la pura assertività del potere. La gente, appunto, “deve soffrire”, secondo la lezioncina di uno che di questo passo, tra qualche decennio, qualcuno ricorderà a stento solo perché vissuto ai tempi di Draghi, Letta, Salvini, Meloni, Conte, Grillo, Berlusconi, cercando disperatamente di farsi notare in un’Italia viva, che chiedeva, invece, di uscire dalla sofferenza.
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