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Leonardo Grottaglie: sulle armi a Israele è polemica serrata tra lavoratori e Cisl Fim

Aggiornamento: 13 ott

Dietro la polemica ritorna l'antica questione etica del rapporto tra maestranze e produzione bellica


di Gianni Alioti


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Il comunicato emesso dalla Fim Cisl, in polemica con l’iniziativa spontanea di un gruppo di lavoratori della Leonardo di Grottaglie, in provincia di Taranto [1], sostenuti dalla Fiom Cgil, non è frutto di un punto di vista comprensibile e motivato, ma di un “analfabetismo di ritorno” che contraddice i valori fondativi e statutari del “sindacato nuovo” nato nel 1950.[2]

Premesso ciò, mi sento di ringraziare di cuore quelle persone che, lavorando nella principale azienda italiana per fatturato militare (13° posto al mondo), hanno lanciato su “change.org” la petizione «NON IN MIO NOME, NON COL MIO LAVORO», con il fine di chiedere sia lo stop immediato da parte del gruppo Leonardo di forniture di sistemi d’arma ad Israele, sia d’investire nelle attività civili e non esclusivamente in campo militare, riaprendo una doverosa discussione sindacale su “cosa e per chi produrre” a partire dalle fabbriche d’armi.

Discussione che, oltre a interrogarci sul piano etico, ci mette di fronte come lavoratori e sindacalisti alla questione del lavoro e sulle prospettive dell’occupazione. Su questo interrogativo ho ritrovato una mia intervista al compianto Massimiliano Pilati, pubblicata sulla rivista «Azione Nonviolenta» quasi 20 anni fa, con il titolo «E se il lavoro da difendere è in una fabbrica di armi?».

All’epoca ero responsabile dell’Ufficio Internazionale della Fim Cisl e rappresentavo l’organizzazione nella Rete italiana Disarmo, di cui eravamo stati i promotori nel 2004 (con il segretario generale Giorgio Caprioli) insieme alla Fiom Cgil e a numerose associazioni e movimenti espressione della società civile, in massima parte di area cattolica. Adesione alla RiD venuta meno nel 2018 durante la segreteria generale di Marco Bentivogli.

La ripropongo cosi com’era. Rileggendola l’ho trovata di un’attualità sorprendente, in quanto l’approccio al problema non cambia. Ciò che cambia, oltre agli attori, sono i contesti e di conseguenza gli obiettivi e le forme con cui declinare le proprie azioni.


DISARMO[3]

A cura di Massimiliano Pilati – disarmo@nonviolenti.org 

 

E se il lavoro da difendere è in una fabbrica di armi?

Come si concilia il diritto del lavoratore con la produzione di armi? il lavoratore è solo parte dell’ingranaggio o ha anche lui delle responsabilità? che significato hanno per il sindacato parole come: nonviolenza, disarmo, riconversione dell’industria bellica?

Abbiamo chiesto a Gianni Alioti della Fim Cisl di aprire la discussione.

I sindacati, con tutti i loro limiti e difetti, hanno svolto e svolgono tuttora un grande ruolo di protezione del lavoro dal libero e incondizionato funzionamento del mercato. Gian Primo Cella ha scritto che “il sindacato è in fondo una rappresentazione organizzata degli aspetti più concreti della vita quotidiana, del lavoro, ma non solo. Per questo riproduce impegno e dedizione, solidarietà pratica, ma anche egoismi e meschinità. Fornisce rappresentanza e protezione al lavoro e ai lavoratori, per come essi sono, non per come dovrebbero essere”.

Parlando di produzione d’armi dobbiamo, quindi, avere coscienza di ciò e delle contraddizioni che possono manifestarsi tra la difesa corporativa degli interessi materiali e le scelte di natura etica e politica.

Una cosa va detta, però, con chiarezza: la decisione di produrre armi da parte degli Stati (che ne sono i maggiori committenti) non è lo strumento per garantire il diritto al lavoro (il fine), né per creare maggiore occupazione. Chi sostiene questo (fosse anche un sindacalista) fa un’operazione mistificatoria. È vero piuttosto il contrario: spesso si usa il diritto al lavoro e la difesa dell’occupazione come argomento per giustificare determinate commesse militari da parte dello Stato o peggio per forzare i vincoli all’export di armamenti verso determinati paesi. In questi casi i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali - sovente - finiscono per essere colpevolmente risucchiati in azioni di lobby. Per rompere questa logica subalterna è fondamentale che il sindacalismo svolga anche un ruolo “educatore”, recuperando la tensione etica, coniugando l’utopia con la pratica del possibile, rifuggendo viceversa il cinismo e l’opportunismo. In caso contrario la partecipazione massiccia dei sindacati nel Movimento per la Pace, come ho più volte sostenuto, rischia di essere schizofrenica.

In questo senso la nonviolenza è un importante antidoto. Allo stesso modo le parole “disarmo”, “riconversione dell’industria militare” (concetto più ampio e radicale di quello comunemente usato di “industria bellica”, perché presuppone il superamento degli Eserciti e della Difesa Armata) rivestono un’importanza straordinaria, in quanto ci costringono come sindacati a misurarci concretamente con le nostre contraddizioni.

Il disarmo presuppone un’azione del sindacato globale per ridefinire le priorità nell’agenda politica degli Stati e della comunità internazionale riducendo le spese militari e trasferendo risorse ingenti dalla “sicurezza militare” alla “sicurezza alimentare - ambientale - sanitaria”.

Per quanto riguarda la “riconversione dell’industria militare” dobbiamo partire da un dato: nonostante si stia verificando una crescita imponente delle spese militari nel mondo, l’occupazione in questo settore non è destinata ad aumentare, anzi subisce una progressiva contrazione (a maggior ragione se riuscissimo ad invertire il trend delle spese per armamenti).

L’esperienza dei primi anni ’90 ci ha insegnato che una dipendenza esclusiva delle aziende dal mercato militare è un elemento di maggiore vulnerabilità sul piano occupazionale. Per questo occorre lanciare un nuovo programma Konver a livello europeo, accompagnato da iniziative legislative nelle regioni direttamente interessate, che rispondano ad esigenze di innovazione, conversione e diversificazione nel civile dell’industria militare, dettate - più che da ragioni di crisi di mercato - da scelte di responsabilità sociale e comportamento etico delle imprese.

Ritornando, invece, alla questione posta sulle responsabilità individuali di quanti lavorano in fabbriche d’armi, ritengo personalmente sbagliato colpevolizzare i lavoratori per le cose che si producono. L’obiettivo della riconversione nel civile - per avere successo - deve coinvolgere necessariamente gli operai, i tecnici ed i manager di queste aziende. Un atteggiamento antagonista verso questi lavoratori preclude, viceversa, l’individuazione di alternative alla produzione militare impiegando le competenze professionali e le tecnologie esistenti. Se vogliamo dare una risposta a questo problema dobbiamo offrire un quadro giuridico e normativo che garantisca (sul piano della tutela del reddito e della mobilità da un posto di lavoro ad un altro) il diritto all’obiezione di coscienza dei lavoratori occupati nelle fabbriche d’armi. Il mio pensiero va a Maurizio Saggioro, operaio della MPR, che nel 1981 - prima della messa al bando delle mine antiuomo - pagò la sua testimonianza di obiettore alla produzione militare con il licenziamento.


Note

[2] La Fim-Cisl celebra il suo primo congresso a Genova nell’ ottobre 1951. È la data di nascita ufficiale, ma la Fim è già in vita dal 30 marzo 1950, quando a Milano due federazioni sindacali dei metalmeccanici, la Fillm (Federazione italiana liberi lavoratori metalmeccanici, appartenente alla Libera CGIL) e il Silm (Sindacato italiano lavoratori metalmeccanici, appartenente alla Federazione Italiana del Lavoro) stipulano un accordo di unificazione sotto la sigla Fim (Federazione italiana metalmeccanici) e decidono di aderire alla confederazione Cisl, che si costituirà a Roma un mese dopo.

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