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La crisi del centro sinistra: i tre nodi del Pd

di Marco Travaglini

Oggi, 22 ottobre, con il giuramento al Quirinale dei ministri e della neo presidente del Consiglio Giorgia Meloni, si chiude la parabola del voto del 25 settembre che ha portato per la prima volta nella storia repubblicana l'espressione di un partito dichiaratamente di destra a Palazzo Chigi. Dalla parte opposta, si chiude anche la sconfitta elettorale del centrosinistra e segnatamente dal PD, ma non quella politica.

Infatti, se è vero che la somma di quel “campo largo” del quale si è spesso vagheggiato è stata pari se non addirittura superiore al centrodestra, com’è noto in politica non vale la regola aritmetica. E ciò che è stato è sotto gli occhi di tutti, oggetto di un dibattito infinito che oscilla tra l’autoassoluzione più miope e la furia iconoclastica di chi vorrebbe fare tabula rasa di tutto e tutti.


Occorre quindi partire dall’esito del 25 settembre e riflettere su ciò che serve e ciò che va evitato per immaginare una stagione nuova della sinistra e dell’alternativa progressista. Dal dibattito che è nato dopo il voto emerge da più punti di vista come la forza maggiore del centrosinistra, il Partito Democratico, non abbia saputo allargare le basi sociali di un centrosinistra che appare sempre più ristretto nella rappresentanza dei ceti medi urbani, limitandosi a difendere l’operato del governo, balbettando una proposta politica poco convincente e piuttosto confusa, agitando il pericolo montante della destra. Quest’ultima ha vinto cavalcando promesse che sarà arduo mantenere, ma tutto ciò ci dice come sia molto difficile sconfiggere il populismo trincerandosi nella difesa della buona amministrazione e dello status quo.


In molti l’hanno sottolineato e questo dovrebbe spingere a riflettere. Se non si mette in campo un progetto politico, una risposta forte al bisogno di protezione e di giustizia sociale, di innovazione e di diritti non si riuscirà a dare voce e sostanza a una speranza di riscatto soprattutto nelle fasce più deboli della società. E si è destinati a perdere. Ecco perché molti di coloro che hanno a cuore il destino della sinistra e, in senso generale della democrazia, guardano con interesse ( e anche con un certo sgomento in queste prime fasi) alla discussione che si è aperta nel Partito Democratico. Dovrà essere un congresso vero, una vera costituente dove vengano esaminate seriamente le scelte politiche compiute non solo negli ultimi tempi ma nell’arco degli ultimi 15 anni di vita del soggetto politico nel quale confluirono i Ds e la Margherita.


Ci sono tre nodi da sciogliere: natura, identità, destino. Non è poco, è tutto. Ha ragione Gianni Cuperlo nel sostenere come la sconfitta non sia “uno scalino sceso male”. Una realtà che non “si risolve con la semplice scelta di un nuovo capo. Bisogna decidere cosa saremo e quale lingua ci distinguerà. Bisogna farlo adesso, perché nei vent’anni passati siamo usciti troppe volte con l’abito sbagliato. Per riuscirci avremo sete di nuovi termini e azioni”. E sarà un percorso faticoso, duro.


Occorrerà accendere nuove passioni. Con la coscienza che questa volta serviranno idee coraggiose e radicali. Solo una seria e approfondita riflessione, evitando di anteporre i nomi dei possibili leader in una resa dei conti ai contenuti e alle scelte di merito, può aprire credibilmente una fase nuova. Sapendo che, i tre nodi da sciogliere riguardano la costituzione materiale, la cultura politica e i legami di quel partito con la società. È tutt’altro che una passeggiata, ma la storia insegna che quando tutto pare irrimediabilmente compromesso la sinistra ha saputo trovare motivo per rialzare la testa. Tutto starà nella capacità di ritrovare se stessa e, di conseguenza, ritrovare quella parte del suo popolo che si è sentita lasciata ai margini.

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