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L'ultimo regalo di Francesco: foto di gruppo dell'ipocrisia dei potenti davanti alla sua bara

  • Vice
  • 27 apr
  • Tempo di lettura: 5 min

di Vice


Sotto sotto deve avere sogghignato. E, se non fosse l'immagine blasfema, anche gioito di averla fatta in barba al Diavolo con bonaria perfidia nel riunire ieri per le sue esequie i potenti del mondo, seriosi, composti e nelle prime file. Quale migliore schiera di ipocriti insieme appassionatamente o quasi, ognuno con le sue ragioni e a vario titolo, che in questi anni ha cercato di isolarlo, denigrarlo, offenderlo. Fatica sprecata, inutile e patetica, a volte teatrale e maligna, destinata però a infrangersi fragorosamente contro lo scudo alzato dall'affetto delle persone che lo ha circondato. Persone che non dimenticano e ricordano. Magari non tutto, ma di tutto, come una piccola enciclopedia popolare.

Di tutto, se non altro per il breve tempo che ha avuto a che fare con Papa Francesco, ci si ricorderà del suo connazionale, il presidente argentino Javier Milei, personaggio che deve essere stato centrifugato ed espulso dalla macchina del tempo con quei tardivi basettoni alla Elvis Presley anni Settanta, che sembrano fare da colonne portanti a quello spesso fogliame di capelli con cui difende la cute dagli agenti atmosferici, in particolare dai colpi di sole.

Milei, destrorso ultraliberista che canta don't cry Argentina, mentre la polizia interviene con ruvidezza alla manifestazioni antigovernative, soltanto due anni fa, in piena campagna elettorale, apostrofò il Papa con alcuni epiteti non particolarmente lusinghieri, perle sgranate del suo personalissimo rosario la cui ultima decade di preghiere era riservata al "rappresentante del maligno in Terra". L'anno dopo, da presidente in carica, Milei corse ai ripari ed affermò di avere modificato quelle opinioni, avviando una sorta di liposuzione alle sue critiche e un lifting al suo linguaggio. Non è mai troppo tardi. Peccato che in Argentina gli ultimi, i poveri, siano sempre più ultimi e se ne aggiungano anche altri che non volevano fare quella fine.

A parziale giustificazione di Milei, vi è da dire che Jorge Mario Bergoglio, prima Arcivescovo, poi Cardinale di Buenos Aires, non era mai stato tenero con i potenti del suo Paese, dal presidente Menem ai suoi successori, alla coppia Kirchner, Néstor e Cristina, al liberale Macri fino ad Alberto Fernández, cui non ha mai lesinato critiche alla loro politica di giustizia sociale.

A questo punto si sarebbe tentati di girare pagina e aprire un paginone su Trump in Piazza San Pietro, se non fosse che la critica al presidente Usa stia perdendo di valore, alla stregua dei Titoli di Stato americani. L'uomo delle manette facili ai migranti, stivati negli aerei-cargo e scaricati come merce avariata nei loro paesi d'origine, non ha mai ricevuto il plauso del Pontefice. Per cui l'ipocrisia di The Donald è così evidente da non provocare grandi sussulti d'interesse. Persino la foto del suo incontro a San Pietro con il presidente Zelensky, cui è seguito un ritorno di speranza per una pace meno umiliante per l'Ucraina, dopo il tweet-monito rivolto a Putin, ha cominciato a sbriciolarsi ai bordi non appena il tycoon ha ripreso a menare la sua mappa preferita, quella sui campi da golf.

Un discorso a parte merita Zelensky, che ai funerali non ha indossato la tuta mimetica d'ordinanza, il cui attrito con Papa Bergoglio è stato favorito da alcune iniziative della Santa Sede e frasi dello stesso Pontefice. Un'antipatia epidermica? La risposta forse ci sarà nei prossimi anni, con Zelensky messo ai margini della politica per favorire la ricostruzione del suo Paese e rimettere ordine e disciplina democratica all'interno della forze armate, la cui deriva nazionalista comincia ad impensierire più di quanto manifestato (ovviamente) dai vertici militari della Nato.

Uno dei primi capitoli dei rapporti tra Bergoglio e Zelensky raccontano che nel maggio del 2023, preceduto da numerose telefonate, il dialogo si fosse caratterizzato da un principio di evidente freddezza, confermato dal rifiuto del presidente ucraino di condividere la mediazione del Vaticano, "perché l'unica pace possibile è la resa dei russi", e chiuso sull'unico denominatore comune degli aiuti umanitari. Nubi relazionali che non si erano certo diradate nei mesi successivi per le parole critiche rivolte indirettamente al Papa da Zelensky, che accusava la Chiesa di essere distante "2500 chilometri" dalle persone; né erano migliorare nell'agosto del 2024, quando Papa Francesco aveva espresso la sua legittima preoccupazione per la libertà religiosa in Ucraina, messa a dura prova da un disegno di legge del governo Zelensky contro la Chiesa vicino alla Russia. Per poi rincarare la dose con un giudizio non proprio benevolo sull'Ucraina che non alzava bandiera bianca.

Pragmatismo, male interpretato? Lo stesso che gli aveva suggerito di lavorare nell'ombra (un comportamento che gli sarebbe stato rinfacciato da numerosi detrattori non appena diventato Papa) durante la dittatura della Giunta golpista dei generali argentini per salvare centinaia di giovani e salvare più sacerdoti dalle celle della tortura? Sotto questo profilo, quando si parla della guerra tra Ucraina e Russia, Bergoglio rimane in parte un rebus complicato da decrittare.

All'opposto, non vi sono stati equivoci sulle sue "bolle" scagliate contro i mercanti di morte, sulla "guerra mondiale a pezzi", sul riarmo europeo di Ursula Von der Leyen, posizioni queste ultime che però non sono del tutto estranee alle cautele in politica estera espresse dall'inizio delle guerra in Ucraina, e di recente espresse nei primi giorni di aprile, dalla Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (COMECE) riluttante a fare "sconti" al criminale Putin che ha aggredito "la martoriata Ucraina" (espressione cara a Bergoglio), ma neppure a Netanyahu per il genocidio perpetrato a Gaza da Israele e dalla guerra commerciale dello "sceriffo di Washington" Donald Trump. Del resto, al vertice del COMECE, formato dal presidente lituano Gintars Gintaras Grušas, dai due vicepresidenti, rispettivamente il serbo Ladislav Nemet e il lussemburghese Jean-Claude Hollerich, non si può chiedere soverchia elasticità o tolleranza verso l'aggressore russo.

Tra gli ipocriti, in Piazza San Pietro si è visto anche il corpulento Orban, manifesto vivente di come non si devono accogliere i migranti, maglia nera pece con cui si è nuovamente distinto a metà mese, grazie all'emendamento costituzionale che mette fuori legge in Ungheria tutti gli eventi pubblici Lgbtq+. Una ulteriore leva per proseguire nell'erosione dello Stato di diritto che Orban ha nel mirino dal suo ingresso nelle stanze del potere.

Non si è parlato degli italiani. La carità di patria può diventare un potente anestetico. Ma si può rimediare con i cosiddetti tag. Si ha soltanto l'imbarazzo della scelta: #migranti, #centriimmigrazione, #naufragi, #Lampedusa, #Omosessuali, #Omofobia, #Albania, #Dlsicurezza, #intercettazioni, #BergogliononèilmioPapa, e in ultimo, una nuova entrata #sobrietà, con cui si sono precluse le manifestazioni per il 25 Aprile, il canto di Bella Ciao, si è multata una Anpi territoriale e i panettieri dichiaratamente antifascisti. Nel gotha degli ipocriti c'è ancora molto spazio davvero per tutti.




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