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Coronavirus, una grande opportunità di riflessione

Aggiornamento: 6 apr 2023

di Michele Ruggiero

Al netto delle polemiche, delle tensioni tra Palazzo Chigi e presidenti delle Regioni, delle provocazioni con atteggiamenti coloriti, del lessico da guerra (necessario per far comprendere la reale portata del pericolo contagio nella popolazione), l’anno del Coronavirus, della Pandemia come ha stabilito l’Oms, sarà anche ricordato per le criticità (inattese) esplose nella gestione di una sanità su scala regionale. La sanità dell’autonomia proto federalista ha denunciato, infatti, la corda e limiti finora sussurrati soltanto a mezza voce dagli stessi addetti ai lavori. Una reticenza non sempre dettata dall’opportunismo, ma favorita dal timore di essere additati come “passatisti”, cioè sedotti da un controcorrentismo volto ad accarezzare il ritorno di un governo centrale forte, controllore della prima azienda pubblica – perché è tale – nel Paese e regolatore dell’efficienza al servizio della salute, che va garantita a tutti i cittadini indistintamente. Sia chiaro, la garanzia esiste per chiunque, indipendentemente dalla regione in cui si abita, e non soltanto sul piano teorico/costituzionale. Anzi… Le Regioni meglio organizzate si “nutrono” dell’inefficienza altrui per offrire prestazioni da fiore all’occhiello e vanto del proprio modello di welfare. Unica controindicazione è la lista chilometrica di crediti che le stesse si ritrovano ad esigere nei loro bilanci. Non deve dunque stupire poi se nell’era della globalizzazione, la delicatezza delle strutture locali provoca cedimenti dinanzi ad eventi come quelli attuali, inediti per numeri ed estensione, con la conseguenza che ognuno si muove in ordine sparso e sovrapposto: nazioni, regioni, aziende sanitarie, singoli reparti. Non deve altresì stupire, così, se il Covid-19 ha mostrato la vulnerabilità di un sistema frammentato che nell’inseguire il particolare (gli interessi delle singole regioni) ha devitalizzato progressivamente il valore dell’insieme, cioè il valore della salute gestita dallo Stato e di quelle parti comuni della sanità che sono fondamentali per rendere davvero eguali i cittadini all’interno della stessa comunità statale. Il Covid-19 ha inoltre rivelato in tutta la sua drammaticità l’inefficacia di politiche pensate (?) esclusivamente ad una ripartizione diversa degli stanziamenti del Fondo sanitario per colpire alcuni settori a dispetto di altri, precludendo alla stessa classe politica (ossessionata dal consenso) e di riflesso ai cittadini una visione d’insieme, fondamentale, come suggerisce la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, per una corretta educazione alla salute. Politiche, si aggiunge, che in Italia hanno fatto baricentro sulla riduzione di medici e soprattutto di infermieri, per non parlare della riduzione degli investimenti a favore della ricerca e del sostegno alle carriere dei ricercatori, parte dei quali emigrata all’estero. Tuttavia la spesa sanitaria complessiva non è diminuita, ma ha seguito linee di razionalizzazione dei presidi sul territorio che a consuntivo ha penalizzato pezzi della sanità pubblica a favore di quella privata, che si è sviluppata in alcuni settori (quelli più remunerativi), ma non a copertura delle contrazioni del pubblico. Morale: dire che si è speso male sarà anche semplicistico, ma inchieste della magistratura e “bacchettate” della Corte dei Conti non favoriscono opinioni diverse. Tuttavia, paradosso della conseguenza, appare plateale in tempi di coronavirus che quell’arretramento sia il male minore rispetto all’idea sottostante che si è voluto inoculare a forza nei cittadini, cioè che la modifica di un modello socio-sanitario possa assicurare come per magia la soluzione di qualunque problema, epidemie e morte incluse. Nulla di più falso, come si vede. Ma ciò che rende ancora lo scenario più disarmante è lo scoprire oggi, dinanzi al numero di contagi che crescono in maniera esponenziale mettendo a rischio collasso le strutture ospedaliere, che le saturazioni dei Pronto soccorso e le famose code per gli esami di ieri rispondevano più ad un’esigenza tutta individuale di ricerca del benessere (effimero) che della salute collettiva. Oggi, per esempio, si scopre una penuria di virologi. Ma l’ultima infornata è degli anni Novanta, per parare l’esplosione dell’Aids. Di conseguenza, vi sono meno laboratori attrezzati. Insomma, una distorsione della forma mentis rispetto ai codici che dovrebbero ispirare il concetto di sanità che ha prodotto anche una ulteriore deformazione dirigistica: la programmazione a senso unico, in cui l’unica parola con diritto di cittadinanza è diventata “risparmio”, acriticamente inteso. Purtroppo, proprio per fronteggiare il coronavirus, si prospetta all’orizzonte un pericolo (noto) di segno opposto: un allentamento dei cordoni della borsa potrebbe favorire sprechi inevitabili per la struttura del nostro sistema Paese. Così, passata l’emergenza, i detrattori della spesa pubblica avrebbero facile gioco a pretendere nuovi tagli e riduzioni, in un deleterio passaggio da un estremo all’altro con il ritorno sulla giostra del parossismo. Che il coronavirus ci porti dunque a riflettere ed a agire con il massimo del buon senso e a rifuggire da soluzioni miracolose e soprattutto dall’invocato “uomo solo al comando”.


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