RACCONTI. Amarcord: i Natali di un tempo e l'inaspettato regalo di sessant’anni fa
- Marco Travaglini
- 21 ore fa
- Tempo di lettura: 7 min
di Marco Travaglini

A sette anni, da un cugino più grande ebbi in dono il primo album dei calciatori della Panini dove ogni squadra di serie A era raffigurata con quattordici giocatori e in molti casi si vedeva che le figurine non erano altro che fotografie in bianco e nero colorate a mano. Nelle ultime pagine dell’album datato 1960 (che in copertina raffigurava Nils Liedholm, il forte centrocampista svedese del Milan) c’era un’intera sezione dedicata al grande Torino, la squadra che dominò i campionati dal 1942 fino al 4 maggio 1949, data della sciagura aerea di Superga. Il mito, a pochi anni dalla tragedia, era fortissimo. La formazione la sapevamo anche noi piccoli a memoria, quasi fosse uno scioglilingua, a prescindere dal tifo: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Quelle immagini rappresentavano le gesta sportive degli eroi del pallone, alimentando i nostri sogni di carta.
Nel primo anno delle elementari il Milan di Nereo Rocco si aggiudicò, nello stadio londinese di Wembley, la prima coppa dei Campioni per una squadra italiana. Era il 1963. I rossoneri sconfissero il Benefica della pantera nera, al secolo Eusebio (che segnò la rete dei lusitani) e Torres per 2-1, grazie a una doppietta di José Altafini, che le malelingue apostrofavano con il nome di un simpatico animaletto per il suo carattere non particolarmente coraggioso in area di rigore. Poi vennero gli anni della grande Inter di Helenio Herrera, mentre la Juventus, orfana di Boniperti e Charles, con Sivori unico grande talento rimasto del "trio" di campioni, era in una fase di declino.
Con le figurine si giocava, componendo squadre immaginarie, vincendole o perdendole a sopra, a lungo, a chi le lanciava più lontano. Ricordo quelle dello scozzese Denis Law, che giocò una stagione nel Torino, insieme con il suo compagno di notti brave, l'inglese Baker, poi quella di Gigi Meroni, la farfalla granata; dei bolognesi Haller, Janich, Fogli, Perani e Pascutti; di Enrico Albertosi con la maglia da portiere della Fiorentina, degli juventini Stacchini, Salvadore, Del Sol, Castano e Anzolin; del brasiliano Amarildo con i colori del Milan e della Fiorentina, e del Golden boy Gianni Rivera, prima con i grigi dell’Alessandria e poi con il Milan, per tutta la carriera. Mi ricordo Carlo Dell’Omodarme, ala della Spal e della Juve. Non lo vidi mai giocare. Lo rammento con una faccia seria e sofferente, ritratto a busto interno nella sua figurina con la maglia a righe verticali bianco-celesti della squadra di Ferrara, la Spal. Mi sembrava un calciatore tosto, affidabile. Trasmetteva, in qualche modo, la certezza che avrebbe fatto fino in fondo il suo dovere. Del resto il cognome lo garantiva.
Un vecchio parente di madre, lo zio Edoardo, tipografo a Milano, mi portava in dono gli album colorati con le fiabe di Esopo e La Fontaine. Non tanto alto, ben vestito, portava un cappello a tesa larga e una cravatta stretta e nera. Era, ma lo seppi molto più tardi, un vecchio anarchico dai modi gentili e miti. Mi portò anche un libricino, informandomi che era stato scritto “da uno che non la pensa come me, ma vale la pena leggerlo perché è bello”. Io non ero in grado di capire il significato di quel “non la pensa come me” e mi lasciai incuriosire. Iniziava così: “La mattina del 24 dicembre 1914, un piccolo gruppo di persone saliva su per la strada del Gran San Bernardo. Quelle persone erano il signor Michele Rasi, bell’uomo forte e robusto, di una quarantina d’anni, la signora Ebrica sua moglie e suo figlio Giacomino, un ragazzetto di dieci anni, bruno, tozzo, coraggioso camminatore”. Mi piacque Il piccolo alpino di Salvator Gotta. Era una prima edizione del 1926. Il libro, pur essendo usato, era ben conservato. Lo zio l’aveva acquistato su una bancarella alla fiera degli Oh Bei, Oh Bei che si svolgeva nei giorni dell’Immacolata nelle vie attorno alla Basilica meneghina di Sant’Ambrogio. Era lì, dove risuonava quell’esclamazione (oh bei, oh bei ! che belli, che belli!) che tradizionalmente si compravano i regali di Natale a Milano. Le bancarelle vendevano dolci e delle sberle di torrone da far paura, che poi venivano tagliate in tanti pezzi più piccoli. Gli ambulanti offrivano giochi, berrette e sciarpe, cianfrusaglie di ogni tipo.

Lo zio Edoardo raccontava – non a me, troppo piccino – che i ragazzi erano soliti comprare le mele da regalare alle proprie fidanzate come pegno di perenne amore. Il libro l’aveva trovato da un suo amico che vendeva copie usate in un banchetto d’angolo. Per questa ragione, ho sempre pensato, che quel libricino fosse ancor più prezioso: non solo perché era un regalo ma perché la sua lettura, nel tempo, era stata condivisa con altri. Lo tenevo come un oracolo. Fu tra i miei primi libri, in quegli anni, senza dubbio il più amato. Le avventure di quel ragazzo capitato tra gli alpini aostani impegnati sul Carso durante la guerra ’15-’18 suscitavano una grande emozione.
In seguito arrivarono anche Il giornalino di Giamburrasca di Vamba, Pel di carota, il libro Cuore di De Amicis (mi ero preso in simpatia la piccola vedetta lombarda), quelli fantastici di Giulio Verne e la scoperta di Salgari, nelle edizioni torinesi cartonate di Viglongo. Ma quella de Il piccolo alpino era una storia che si era guadagnata un posto nel cuore e per questo non ringraziai mai abbastanza lo zio Edoardo, soprattutto per lo sforzo che aveva compiuto nel regalarmi il libro più bello di quel signore che, tra le altre opere, aveva composto una canzone come Giovinezza che, non è difficile immaginarlo, allo zio faceva venire i nervi.
Ricordo anche uno dei primi regali di Natale: un autocarro con rimorchio di legno che mio padre mi costruì con le sue mani. La forma un poco grezza e molto artigianale lo rendeva ancora più bello. Ero orgoglioso di quel mio camion. Il cassone del rimorchio era capiente e si riempiva bene con ghiaia e sassolini. Le ruote, pur non essendo perfettamente circolari, giravano che era un piacere. Con i pastelli a cera l’avevo colorato di un bel rosso carico, intenso. Non del tutto perfetto perché le impurità del legno e la mia scarsa manualità non consentirono una colorazione uniforme. Non era però un problema. Sul camion volevo caricare anche il mio cane, Dick.
Quando mio padre lo portò a casa, fu una sorpresa. L’aveva nascosto sotto la giacca e mi spaventai non poco nel vedere quella testolina bianconera che faceva capolino. Era un batuffolo di bastardino che campò più di vent’anni, crescendomi accanto. Anche lui guardava il camion, curioso ma diffidente. Gli girava attorno, lo annusava. Io volevo caricarcelo su, lui scappava e guaiva. Non c’era verso di convincerlo. Preferiva muoversi sulle sue zampe piuttosto che salire su quel trabiccolo. A quel tempo le finanze di casa erano decisamente magre. Mio padre faceva anche due turni consecutivi al lavoro. Partiva all’alba con la bicicletta e pedalava dalla frazione bavenese di Oltrefiume fino al confine tra Feriolo e Fondotoce, poco oltre la cascina Garlanda, dove faceva il segantino, tagliando tutto il giorno lastre di granito, beola o marmo. Non c’erano stagioni o giornate brutte o belle: piovesse, nevicasse, tirasse vento o si soffocasse per l’afa, gli toccava andare. Era un lavoro piuttosto duro e rischioso per la salute, con tutta quella polvere e la silicosi sempre in agguato.
Mia madre, invece, badava alla casa. S’ingegnava a far quadrare i conti del bilancio familiare. Compito tutt’altro che agevole, al quale dedicava il meglio di sé. Nonostante ciò, io e mio fratello Massimo, nato da poco, eravamo tenuti come due bijoux. Puliti da capo a piedi, vestiti sobriamente ma con dignità. Educati al rispetto dei genitori, dei nonni e dei vicini. Il Natale del 1965, a dispetto della buona volontà, si annunciava povero di doni. Forse qualche mandarino, un pugno di arachidi, magari un torrone e qualche caramella di zucchero. In fondo, grazie allo zio Edoardo, avevo avuto qualcosa e poteva anche bastare. Mia madre era piuttosto rassegnata quando accadde un piccolo miracolo.

Stava andando a far la spesa dal Tabaccaio, dove avrebbe fatto scorta di sale grosso e fine, quando per terra, poco prima della curva a fianco del prato cintato da un muretto che formava un triangolo geometrico, scorse un biglietto da mille lire. Non credo che la vista del volto di Giuseppe Verdi le avesse mai fatto tanto piacere quanto in quell’occasione. Si guardò in giro. Non c’era anima viva. Si chinò rapidamente e arpionò il biglietto, infilandoselo in tasca. Me la immagino, rossa in volto e tutta agitata. Dopo qualche passo si fermò a guardare quel tesoro e preso coraggio si avvio di buon passo dal signor Martini, il macellaio, per trasformare quell’inaspettata fortuna in un certo numero di fette di lonza di maiale. Dopo il macellaio fu la volta del negozio di alimentari per un etto di formaggio e di prosciutto cotto. Lasciata alle spalle la drogheria, calcolò rapidamente quanto rimaneva delle mille lire e si accorse che erano 280 lire.
Quella fu la somma che spese dalla signora Alfonsina per il sale e per un camioncino di latta rossa e blu. Era il mio regalo per Natale. Quando vidi l’inaspettato dono sotto il piccolo abete addobbato con una dozzina scarsa di palline colorate, pensai che Gesù Bambino fosse stato molto generoso. Non credevo ai miei occhi: era un camioncino bello e colorato, con nere e lucenti ruote di gomma. Sull’abitacolo erano disegnate le porte e il rosso del cassone contrastava con il blu cobalto dell’intera struttura. Era il più bel camion di latta che avessi mai visto. Tanto bello e sfolgorante che a un certo momento non lo vidi più. Era sparito! Mi sembrava d’averlo sognato, anche se ero certo di averlo tenuto tra le mani, girandolo e rigirandolo sotto e sopra.
Mia madre mi consolò, giocando con me, la nonna e la zia Annetta al gioco dell’Oca. Tiravo il dado, seguivo il percorso dell’oca di legno sulle caselle ma non dimenticai quel camioncino. Era successo qualcosa che non riuscivo ancora a capire. Fuori nevicava che era un piacere e nei giorni successivi mi divertii con i pupazzi e le palle di neve. Venne poi la notte della Befana. Nella calza appesa vicino al camino trovai due mandarini, delle castagne secche, un cioccolato, un paio di rotolini di liquerizia e…un camioncino di latta rossa e blu. Non ricordo un ritorno tanto gradito quanto quello.













































Commenti