top of page

L'EDITORIALE DELLA DOMENICA. "Saggio modificare, non cancellare, l'abuso d’ufficio"

Aggiornamento: 18 giu 2023

di Maria Grazia Cavallo*


Sulla riforma della giustizia – come avviene, sempre più spesso anche per problematiche diverse , ma che costituiscono temi altrettanto “sensibili” - vorremmo sentire ragionamenti adeguati alla delicatezza della materia. Parole chiare, che spieghino alle persone perché è importante - per ciascun individuo e per il buon funzionamento della società nel suo complesso - cambiare ciò che non va nel nostro sistema giudiziario.

Occorrerebbero spiegazioni semplificanti – nessun problema è così complesso da non poter essere spiegato semplicemente - che attirino l’interesse dei cittadini, che li coinvolgano anche empaticamente, fino a renderli esigenti nei confronti del potere.

Perché – parafrasando la famosa esortazione del Sessantotto (formidabili quegli anni ) – se non ti interessi della giustizia (che è anche politica), la giustizia si interesserà di te.

Invece si alzano barricate ideologiche. Ascoltiamo – come potremmo definirli ? - ragionamenti a "spallate"; ci stupiamo per certe ruvidezze e tensioni che “sentiamo” preconcette, neppure tecnicamente motivate; per partigianerie di principio su temi che invece, riguardando tutti i cittadini , richiederebbero la convergenza verso punti di equilibrio ampiamente condivisi. Da troppo tempo ci stiamo abituando, fino all’assuefazione, a prese di posizione precostruite, orientate da antenne sensibili , tese a cogliere e ad assecondare gli umori, le sensazioni, la pancia della gente, i sondaggi.


Dove sono finiti i pasdaran di Mani pulite?

Stupisce il disinteresse della gente? Se ne cerca davvero il coinvolgimento informato? Oppure anche la Giustizia , come ogni sfaccettatura del Potere , è un problema da risolvere ai piani alti? Nulla di nuovo sotto il sole, anche se non antico come la memoria leopardiana: è accaduto per altre importanti questioni degli ultimi trent'anni. In proposito, l'elenco è lunghissimo in linea generale, con esiti nefasti sulla formazione della classe politica. Ed è troppo lungo anche in materia di Giustizia, con effetti altrettanto devastanti sulla vita concreta delle persone, soprattutto di quelle socialmente più fragili.

Del resto, come si parla di Giustizia, in Italia, da troppi anni ? Conosciamo bene le reazioni di quanti - fino a ieri pasdaran di "Mani pulite", appagati dal vedere i politici in galera, alcuni dei quali si suicidarono, stigmatizzano oggi, ad ogni occasione ed in ogni possibile contesto, l'operato dei magistrati .

E che dire di coloro che, nell'anniversario di ieri del deprecato arresto di Enzo Tortora - condannato a dieci anni e poi assolto, dopo essere volontariamente tornato in Italia dal Parlamento europeo per affrontare il processo d’appello - oggi strumentalizzano l'impunità delle Procure di allora, salvo aver commemorato il 23 maggio scorso la strage di Capaci e la morte di Giovanni Falcone? Sappiamo già che li vedremo schierati in prima fila, il prossimo 19 luglio, per ricordare la strage di via D'Amelio e l'assassinio di Paolo Borsellino.

Colpe e meriti, luci e ombre, mediocrità ed eccellenze che fanno parte di un unicum che è la Giustizia italiana, il terzo potere dello Stato. A cui i cittadini si affidano per ottenere protezione, tutela dalle sopraffazioni e dalle discriminazioni, rispetto dei propri diritti. Proprio perché il Diritto è il potere di coloro che potere non hanno e non devono essere traditi nelle loro giuste aspettative. Su queste premesse, si sta intraprendendo in questi giorni la riforma della Giustizia penale. Ebbene, siamo in molti - fra noi, “addetti ai lavori”, anche in ruoli diversi e di idee politiche diverse - a non comprendere o a trovare inappropriati, certi criteri utilizzati dal Ministero nell’affrontare questo vasto tema .

Chissà che cosa ne pensano i cittadini… Il cui sempre più forte disinteresse si sta esprimendo - con severa chiarezza – attraverso l’astensionismo elettorale. Ce ne stupiamo ? Sarebbe singolare il contrario, dal momento che l’opinione pubblica aveva seguito con passione, a partire dal 1992, le clamorose inchieste di Milano contro i colletti bianchi. Tali indagini riuscirono a scoprire e ad abbattere, ma non a sradicare completamente il malaffare, tenace come l’edera, il complesso sistema di intrecci di corruzione fra potere politico ed economico. Successivamente, i cittadini si erano appassionatamente divisi e schierati nel seguire per anni le vicende e la narrazione del berlusconismo contro la magistratura, fra partigianerie giustizialiste, un certo vittimismo che ha fatto scuola ed appelli al rispetto delle regole ed al garantismo. Tutto ciò moltiplicato esponenzialmente in tutta Italia, ad ogni avviso di garanzia, ad ogni inchiesta, alle sempre più ipertrofiche - ma appassionanti e ricercate dal pubblico - narrazioni mediatiche delle indagini .

Come se i processi, abbandonati i Tribunali, si fossero trasferiti sui giornali e nei talk-show. Come se la giustizia venisse “fatta” attraverso le indagini delle Procure e non - successivamente ed alla chiusura delle stesse - attraverso la celebrazione dei processi, con tutti i tecnicismi e il rispetto delle forme, davanti ai giudici . Con grave, e ancora perdurante, distorsione nella percezione del significato profondo e simbolico del “fare giustizia” nell’immaginario collettivo. Ma tant’è.


Lo scontro tra giustizialisti e garantisti

Si accentuò così in quegli anni un certo modo di leggere le vicende giudiziarie attraverso il pregiudizio giustizialista: cioè il marchio colpevolista “a prescindere”, la ridondante esposizione mediatica attribuita agli avvisi di garanzia (che appunto “garanzia” devono offrire) equiparati però, nella narrazione giornalistica, a sentenze inappellabili. Salvo poi – a distanza di anni e sui giornali – la riduzione dei titoloni di anticipata condanna dell’indagato a laconici trafiletti, rigorosamente taglio basso, dopo l'assoluzione dell’imputato. Forse neppure il minimum doveroso, per dovere di cronaca.

Vittorie di Pirro: persone la cui carriera era stata interrotta e poi distrutta da anni di attesa di processi,conclusi con assoluzioni. Graticole psicologiche, logoramenti personali e familiari, risorse consumate, danni non recuperabili. E, per chi risorse non aveva, rassegnazione. Abbiamo preso atto dell’ostinazione di taluni a ritenere "comunque" colpevole chi "l’aveva scampata". Abbiamo sentito definire così, ad esempio, un bravo amministratore campano, diciannove volte inquisito e diciannove volte assolto, ridotto in panchina prima del tempo e poi rassegnato a restarvi. Un caso fra i tanti.

Chi non ha colto, nei pensatori che fanno tendenza, atteggiamenti di indifferenza a sentenze assolutorie passate in giudicato, emesse dopo troppo tempo? Atteggiamenti che esprimono la protervia di saper definire e decidere che cosa è giusto o ingiusto rispetto al proprio “sentimento” o alla propria convenienza del momento. Relativismo culturale? Malafede? Apriorismo a prescindere “senza se e senza ma”? Diffidenza nelle Istituzioni a seconda dei casi, delle contingenze, del proprio e altrui orientamento politico ? O semmai deficit di etica o di cultura delle istituzioni o di etica tout court ? Peraltro, a questi contrapposti schieramenti manichei, sempre assai radicalizzati, si è aggiunto in tempi più recenti - a seconda del vento o dell'eco dei "vaffa" in arrivo dalle piazze – l’ammaliante sirena del muscolare populismo giustizialista.

Populismo e giustizialismo: una miscela pericolosa per la Giustizia e, radicalmente, per la democrazia. Il giustizialismo è istinto, è un fatto di pancia, una modalità di pensiero che tende a puntare il dito senza attendere riscontri; è reazione "da sangue caldo". Talvolta, ma non sempre, trova radici nella cosiddetta “cultura del sospetto”, da tempo sottotesto costante nella lettura mediatica delle vicende giudiziarie. Quelle altrui, naturalmente.

Diversamente il garantismo - la risposta apprezzabile - è "di testa", controistintuale, razionale. Richiede elaborazione di un pensiero, in qualche modo “educato” e "colto”. Presuppone l’umiltà dell’ipotesi dell’immedesimazione di sé stessi quali vittime di un sospetto o di un errore giudiziario. Impone un’epochè : una sospensione del giudizio in attesa di riscontri su cui riflettere; costituisce modalità di reazione - per così dire - "a sangue freddo".

Lo scontro fra queste diverse modalità di approccio e di reazione ai problemi della giustizia ha attraversato gli ultimi decenni della vita politica del nostro Paese, in maniera oscillante e ambivalente. Quanti giustizialisti abbiamo visto convertirsi al garantismo non appena ricevuto un avviso di garanzia? Quanti hanno reagito definendosi vittime di complotti - alla stessa maniera di quel Berlusconi che in passato avevano criticato - non appena messi nel mirino di un'inchiesta? Tutto questo ci dovrebbe suggerire, almeno, una fase di pausa e di sereno confronto a "campo largo" sulla riforma della giustizia ; in un clima di discussione - sia pur critica , ma tecnicamente costruttiva in Parlamento.

La riforma ( o controriforma, rispetto alla normativa Cartabia?) propone cambiamenti significativi sia nella procedura penale del che nel diritto sostanziale. E’ tutta in divenire, ma fin d’ora presenta aperture garantistiche apprezzabili – ad esempio in tema di avvisi di garanzia e di collegialità nella decisione sulle misure cautelari – ma anche preoccupanti criticità nella ridefinizione dei rapporti fra giustizia ed informazione; e addirittura tratti di incomprensibilità nella selezione dei reati da rivisitare. Faccio riferimento, ad esempio, alla abolizione del reato di l’abuso di ufficio.


La cancellazione del reato di abuso d’ufficio

E’ alquanto discutibile la proposta di cancellare, dal catalogo dei reati, quello di abuso d’ufficio. Reato particolarmente temuto dai sindaci che - trasversalmente rispetto agli schieramenti politici - da tempo ne richiedono la modifica. Sostengono che il rischio di essere incriminati, anche per minimali vicende - fra le molteplici delle loro attivissime e variegate attività quotidiane - rallenta l’attività amministrativa. Il timore del procedimento penale, avvisano, può essere paralizzante e si ripresenta quotidianamente, ad ogni apposizione di firma, condizionando anche i più preparati, scrupolosi, attenti, guardinghi amministratori. Potrebbe tradursi – e la quantità dei procedimenti incardinati avanti alle Procure lo dimostra - in probabilità di concreta incriminazione da un giorno all’altro, con tutte le ulteriori conseguenze. Potrebbe paralizzare l’attività amministrativa, che invece deve essere efficiente, tempestiva e corretta per il bene pubblico ed altresì per non ledere gli interessi e i diritti dei cittadini.

Tutta la nostra solidarietà ai primi cittadini, i cui gravosi impegni ben conosciamo ed apprezziamo. Anche se di questo reato “proprio” (cioè ascrivibile soltanto a pubblici ufficiali o agli incaricati di pubblico servizio nello svolgimento delle funzioni o del servizio) potrebbero essere chiamati a rispondere molti altri soggetti. Ad esempio: il docente universitario, il preside di una scuola pubblica, il segretario comunale, il commissario di un concorso pubblico, il magistrato, il medico dell’Asl, il comandante di un reparto militare, il maresciallo dei Carabinieri e via dicendo: l’elenco sarebbe lunghissimo. Certo non il verduriere, non il meccanico, non il panettiere, non l’operaio, non il poeta , non la stragrande maggioranza dei cittadini che funzioni pubbliche non ha.

Coloro che vogliono abolire il reato fondano tale scelta sull’enorme quantità di procedimenti penali aperti per abuso di ufficio, rispetto al numero esiguo delle condanne. I numeri non sono tutto. Sarebbe come a dire che se una malattia rara colpisce poche persone, tanto vale tagliare i fondi alla ricerca. O come a dire che se il livello dell’atrazina nell’acqua è troppo alto ed ineliminabile, tanto vale alzarne i parametri di accettabilità… o sono sbagliati questi paragoni?

Vi è da dire che il reato di abuso d’ufficio è stato via via modificato e precisato nel tempo, proprio allo scopo di eliminarne quella iniziale genericità che fino agli anni ’90 aveva generato, fra gli avvocati, il paradossale detto: “anche appoggiare i gomiti sul tavolo può essere abuso d’ufficio”. Dopo le varie riforme, che ne hanno precisato e ristretto i confini - e soprattutto dopo la Riforma 2020 del governo Conte - è più improbabile esserne incriminati, ed invece è ancor più agevole potersi ben difendere dall’eventuale accusa.

Dunque, tutta la nostra solidarietà agli amministratori locali, ma anche un incoraggiamento: affinché non si sentano più “come d’inverno sugli alberi le foglie” (qui si viene in soccorso Ungaretti), allora avevano ragione di sentirsi così, ma il passato è passato o sta passando (si cominciano a vedere statistiche incoraggianti ).

Si consideri però che la lettura dei dati ci dice, anche, quanto sia enorme la quantità di denunce che i cittadini propongono, ogni giorno, per abuso d’ufficio, chiedendo inchieste e giustizia all’autorità giudiziaria.

Eh sì: perché questo reato è considerato – da un certo orientamento giurisprudenziale - “plurioffensivo”: poiché tutela in primis l’interesse pubblico al buon andamento e alla trasparenza della pubblica amministrazione. Ma anche l’interesse del cittadino a non essere leso nei diritti che la Costituzione gli garantisce , rispetto a comportamenti ingiusti, illegittimi ,abusanti della propria funzione dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio, nello svolgimento delle funzioni o del servizio.


E’ poco importante questo ?

E’ poco importante che l’abuso d’ufficio costituisca quasi sempre il cosiddetto “reato civetta” che può orientare le indagini verso altre e ben più gravi violazioni? Proprio dalla contestazione iniziale di comportamenti abusanti - nello specifico significato tecnico descritto dettagliatamente da questa fattispecie – sono nate la maggior parte delle inchieste per corruzioni, concussioni, criminalità organizzata. Per dirla in parole comprensibili anche da un bimbo, “l’abuso d’ufficio è il topolino che ti può portare al formaggio”. Per dirla in termini tecnici, è una norma di chiusura che copre anche le fattispecie meno gravi, proprio per offrire alla società la migliore e più avanzata tutela da comportamenti lesivi della buona azione amministrativa e dei diritti dei cittadini.

Per dirla con la metafora chiarissima del prof. Gatta, docente di Diritto Penale e direttore del Dipartimento di scienze giuridiche alla Statale di Milano): “se il pescatore usa reti a maglie troppo larghe, prende i pesci più grossi e perde quelli più piccoli. L’abuso di ufficio, sin dal codice Mussolini e Rocco, è una rete che serve per chiudere il sistema, pensato per punire abusi di potere e conflitti di interesse che non integrano più gravi reati contro la pubblica amministrazione”. E soprattutto, teniamo presente che in quasi tutti gli Stati Europei esiste una norma che prevede questo tipo di reato.

Dunque, perché vogliamo eliminarlo proprio in questo momento storico, quando siamo in attesa dell’enorme quantitativo di denaro dall’Europa per il PNRR? Sarebbe semmai il momento di alzare ancor di più la guardia. Non di eliminare - attenzione eliminare, e non soltanto modificare, come invece di dovrebbe fare, questo articolo del Codice Penale. Pensiamo di essere così virtuosi ed incorruttibili nel Paese che annovera quattro “mafie nostrane” oltre a quelle d’importazione ?

E come la mettiamo a livello internazionale? L’Europa, attraverso una precisa decisione di Von der Leyen, non soltanto non ci chiede di abolire il reato. Anzi, ci impegna a qualcosa di più: alla collaborazione per definire una direttiva europea contro la corruzione. Inoltre non possiamo dimenticare che nel 2009, con la legge 116, abbiamo ratificato la Convenzione di Merida, dell’Assemblea generale dell’ONU del 2003, contro la corruzione, proprio dimostrando che avevamo anche una norma contro l’abuso d’ufficio. Ce ne possiamo dimenticare proprio adesso ?

In questo caso, è bene ricordare le classiche tre domande:

“Perché? In che modo? (che a noi giuristi piace esprimere nel latino "quomodo"). Quando?

Perché dobbiamo occuparci del reato di abuso d’ufficio? Perché si tratta di una norma che può compromettere, e rallentare fino a paralizzare l’efficienza della azione amministrativa in vari ambiti, con probabili effetti di danno sociale e individuale.

In che modo possiamo farlo? Non certo cancellando, ma piuttosto modificando in senso ancor più garantistico la norma.

Quando possiamo farlo? Fin d’ora, con estrema rapidità e con bravi esperti di vario orientamento politico. Perché qualunque riforma della giustizia, anche soltanto di una norma, ci riguarda tutti .


*Avvocato Penalista





447 visualizzazioni0 commenti

Comments


L'associazione

Montagne

Approfondisci la 

nostra storia

#laportadivetro

Posts Archive

ISCRIVITI
ALLA
NEWSLETTER

Thanks for submitting!

bottom of page