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1843, il Natale di Dickens e i biglietti d'auguri di Henry Cole

di Marco Travaglini


I cartoncini di Natale con frasi d’augurio e belle immagini vennero pensati e prodotti (almeno quelli ufficiali) nel 1843 quando l’uomo d’affari inglese, Sir Henry Cole, che lavorava alle poste britanniche, commissionò al disegnatore e amico John Callcott Horsley la realizzazione di mille cartoline natalizie da inviare ai propri amici. Preoccupato di non aver tempo per scrivere le annuali lettere per le feste di fine anno, Cole gli chiese di disegnargli un cartoncino che contenesse messaggi familiari e caritatevoli. Forse non se ne resero conto sul momento che stavano contribuendo alla creazione del Natale moderno con albero, regali, Babbo Natale, i buoni sentimenti e quei biglietti d’auguri, prodotti d’invenzione anglosassone, dove il principale interprete fu uno dei più grandi romanzieri dell’Ottocento, Charles Dickens.

In Canto di Natale, suo malgrado, lo scrittore inglese inventò gran parte della mitologia che ancora oggi costituisce la tradizione natalizia: il pranzo, la famiglia, le vacanze, la neve, i regali, la beneficenza, i canti, i dolci e addirittura il vin brulè. L’ormai famosissimo libro che narra la fantastica storia dell’avarissimo Scrooge, diventato generoso in seguito alla visita di tre spettri proprio durante la notte di Natale, venne pubblicato il 18 dicembre 1843.

Venduto in seimila copie nella prima settimana rappresentò, per l’epoca, un vero e proprio bestseller. Con quella storia Dickens declinò i nuovi valori che la festività intendeva rappresentare. Non solo la famiglia ma anche lo spirito di carità che biasima l’ingiustizia sociale e la povertà, descrivendo di par suo quell’Inghilterra rurale destinata a fare da sfondo alle cartoline di auguri con i paesaggi innevati.

Tutto questo accadeva nello stesso anno che vide il trentenne Wagner rappresentare il suo primo lavoro, un potente melodramma intitolato L’Olandese volante, mentre Giuseppe Verdi nel febbraio mandava in scena alla Scala di Milano I Lombardi alla prima crociata. Il successo per il maestro di Busseto fu strepitoso, soprattutto per il celebre coro dei lombardi, adottato come canto patriottico in chiave manifestamente anti-austriaca. Il 1843 fu anche l’anno dell’inaugurazione del primo stabilimento balneare riminese mentre a Milano nasceva la prima stazione ferroviaria sul modello di quelle inglesi: quella di Porta Tosa, capolinea della ferrovia Milano-Venezia.

La rivoluzione industriale muoveva i primi passi in Italia, partendo dal Piemonte e dagli opifici tessili nel Biellese e nel Verbano. A settembre usciva il primo numero del magazine The Economist mentre si accendevano qua e là movimenti di protesta sociale e d’indipendenza, anticipatori di quella “primavera dei popoli” che cinque anni più tardi, nel fatidico 1848, sconvolse l’Europa con i suoi moti rivoluzionari. L’Inghilterra s’incamminava nell’età vittoriana (la Regina Vittoria, sul trono da sei anni, ne compiva ventiquattro), epoca di grande splendore politico, culturale e di cambiamenti sociali. Insomma, un anno importante quel 1843.

Tornando ai biglietti d’auguri, Horsley scelse di disegnare una famiglia, composta da elementi di varie generazioni e intenta a festeggiare il Natale con un brindisi a base di punch (suscitando non poche polemiche e rimostranze), recante la scritta a lettere maiuscole “A Merry Christmas and a Happy New Year to You” (ovvero l’augurio di Un Buon Natale e un Felice Anno Nuovo). Le cartoline, ognuna delle quali misurava 8,5 per 14,5 centimetri, furono litografate presso la londinese Jobbins of Warwick Court e colorate da un pittore professionista, un certo Mason. Lo stesso Cole, futuro fondatore e direttore del primo museo del design, le acquistò per uno scellino l’una, firmandole Felix Suddenly, cioè “improvvisamente felice”. La nascita degli auguri natalizi coincise o quasi con quella del francobollo, tant’è che il britannico penny black con il profilo della Regina Vittoria, fu il primo esempio di carta-valore ad essere destinata all’affrancatura della corrispondenza. Ma questa è un’altra storia.

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