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La stanza del pensiero critico. Sindacati confederali alla prova della polarizzazione

di Savino Pezzotta


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Sono convinto che sia ormai maturo il tempo perché il sindacalismo confederale italiano dia vita a una vera azione di rivitalizzazione: una strategia insieme organizzativa e culturale capace di farlo uscire dall’attuale crisi di rappresentanza e di riaffermare, nei fatti e nelle pratiche, la propria autonoma soggettività politica. Ciò implica una lettura lucida della crisi di autonomia che il sindacato sta vivendo all’interno di un sistema politico sempre più segnato da una polarizzazione accentuata e pervasiva.


Una minaccia all’autonoma soggettività del lavoro

L’attuale fase politica è caratterizzata da una polarizzazione crescente che non riguarda soltanto la competizione elettorale o lo scontro ideologico tra destra e sinistra, ma investe la forma stessa dello spazio pubblico. La politica tende sempre più a organizzarsi secondo una logica binaria: amici e nemici, popolo ed élite, sovranità e tradimento. In questo scenario, il sindacato confederale rischia di smarrire ciò che ne ha storicamente costituito la forza: la propria autonoma soggettività politica.

Il sindacato non nasce come “parte” di uno schieramento, ma come pratica sociale autonoma, radicata nella vita quotidiana dei lavoratori, capace insieme di conflitto e di mediazione, di parola pubblica e di organizzazione concreta. La polarizzazione, al contrario, tende a inglobare o a espellere: o si è dentro un campo o si è contro. È in questo meccanismo che si consuma una minaccia profonda all’autonomia sindacale.

Per comprendere questa dinamica è utile distinguere tra strategie e tattiche. Le strategie appartengono ai soggetti dotati di un “luogo proprio” – lo Stato, i partiti, le grandi istituzioni – che possono delimitare lo spazio, nominare i problemi e imporre cornici di senso. Le tattiche, invece, sono le pratiche quotidiane di chi non dispone di un luogo proprio, ma agisce all’interno di spazi definiti da altri, reinventandoli dall’interno.

Il sindacato confederale si trova oggi in una posizione ambigua: formalmente è un’istituzione riconosciuta, ma sostanzialmente subisce le strategie dei poli politici, che cercano di ridefinirne ruolo, linguaggio e significato. Ogni sua iniziativa viene immediatamente riletta come una mossa “contro” o “a favore” di un governo, mai come espressione autonoma del conflitto sociale.

In questo modo, il luogo proprio del sindacato – il lavoro, la contrattazione, la tutela collettiva – viene espropriato simbolicamente. Non è più il sindacato a definire il senso delle proprie azioni, ma il campo politico polarizzato che le traduce in appartenenza ideologica.


Sciopero e conflitto: da pratica sociale a segno identitario

Un esempio emblematico di questo slittamento è la trasformazione dello sciopero. Nella tradizione sindacale, lo sciopero è una pratica conflittuale radicata nella quotidianità del lavoro: una tattica collettiva che interrompe l’ordine produttivo per rendere visibile un’ingiustizia.

Oggi, invece, lo sciopero generale viene spesso rappresentato come un atto politico di parte, un gesto simbolico interno allo scontro tra poli contrapposti.

Qui emerge un nodo cruciale: la perdita del fare a vantaggio del “dire su”. Il conflitto non viene più valutato per ciò che produce nei rapporti di lavoro e nella società, ma per il significato che assume nella narrazione politica dominante. Il sindacato perde così la capacità di raccontare il lavoro a partire dalle pratiche reali e si ritrova parlato da altri.

Una possibile rivitalizzazione del sindacalismo confederale passa, a mio avviso, dal recupero della centralità delle pratiche ordinarie: i gesti minimi, le micro-resistenze che non fanno notizia ma tengono in piedi la vita sociale. Il sindacato nasce precisamente da questo tessuto: assemblee, delegati, contrattazione aziendale, tutela individuale che diventa collettiva.

La polarizzazione politica, però, privilegia eventi, slogan, identità forti. In questo schema, il lavoro quotidiano del sindacato diventa invisibile o irrilevante; peggio, viene giudicato conservatore, burocratico o inefficace perché non produce simboli immediatamente spendibili nello scontro mediatico.


Complessità sociale e impoverimento del linguaggio pubblico

Temi decisivi come il salario minimo, l’autonomia differenziata o la riforma del welfare mostrano con chiarezza l’effetto corrosivo della polarizzazione. Quando il sindacato prova a tenere insieme diritti, contrattazione e uguaglianza sociale, viene schiacciato tra narrazioni opposte e semplificanti. La pluralità delle pratiche viene sacrificata all’unità della strategia; la complessità del lavoro non trova più un linguaggio legittimo nello spazio pubblico. E senza linguaggio, anche l’autonomia si indebolisce.

I profondi cambiamenti che hanno trasformato il mondo del lavoro suggeriscono una via non nostalgica. Si tratta di pensare l’autonomia sindacale non come una posizione esterna o neutrale rispetto alla politica, ma come una pratica quotidiana di riappropriazione di senso e di ruolo dei lavoratori . Autonomia significa tornare a partire dai luoghi reali del lavoro, riconoscere e valorizzare le tattiche diffuse dei lavoratori, ricostruire una narrazione del lavoro che non chieda legittimazione ai poli politici.

In una società polarizzata, l’autonomia del sindacato non è garantita da statuti o tradizioni, ma dalla capacità di abitare il conflitto senza farsi catturare. È una pratica fragile, spesso invisibile, ma resta una delle poche risorse democratiche capaci di contrastare la riduzione della politica a plebiscito permanente.

 

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