La morte di Nicola Tranfaglia
di Michele Ruggiero |
Leggi l’articolo completo | Download |
Fino al decesso doloroso della moglie, avvenuta una decina di anni fa, evento che di fatto sancì il taglio con le radici torinesi e lo portò a vivere definitivamente a Roma, dove è morto ieri, non era infrequente vederlo passeggiare in via Po e in via Verdi, nei pressi dell’Università in cui aveva insegnato dalla seconda metà degli anni Settanta sulla cattedra di Storia Contemporanea. Affabile, come la maggioranza dei napoletani, città in cui era nato il 2 ottobre del 1938, Nicola Tranfaglia manifestava con naturalezza la sua disponibilità al dialogo e non rinunciava a parlare di politica, diventata la sua grande passione in prima persona e il suo orizzonte maieutico sul finire degli anni Novanta del Novecento. Agli amici o anche a semplici conoscenti, studenti di cui era stato relatore alla tesi, non ultimi i numerosi giornalisti che in tanti decenni l’avevano intervistato e ricevuto anche l’onore della prefazione ad un libro, esternava le sue raffinate analisi sul presente e, soprattutto, la sua visione sul futuro. Il suo era stato un impegno diretto e personale nei partiti della sinistra che l’aveva portato in Parlamento nel 2006. Un’esperienza però durata appena due anni per la conclusione anticipata della XV legislatura. Ma la brevità del mandato non ne aveva precluso le fertili relazioni costruite. Anzi. Attorno a Tranfaglia era germogliata una fitta rete di attenzioni formata da autorevoli esponenti delle istituzioni, sensibili al confronto politico e al pensiero che la sua penna – era e si sentiva giornalista – riservava sui quotidiani la Repubblica e l’Unità. E di queste relazioni Tranfaglia era fiero, orgoglioso, e non temeva di far emergere anche quella punta, piccola, di narcisismo con cui richiamava i suoi contributi alla cultura politica e non.