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L’amara fine del presidente diventato contavoti

di Menandro |

Mentre il pacato Joe Biden mostra il profilo dell’autentico uomo di Stato, teso a raffreddare l’infuocato clima post elettorale, Donald Trump ha annunciato che cosa farà da grande: il contavoti. Il suo è stato un annuncio sobrio, in perfetto stile trumpiano, cioè poco incline alla spettacolarizzazione. Da oggi, insieme alla sua legione di avvocati, girerà i seggi elettorali, e non solo quelli (la carne è debole…), di tutti gli Stati dell’Unione. Come un moderno rabdomante o cane da tartufi andrà a cercare i suoi voti, e li conterà e riconterà per dimostrare che che la battaglia per la Casa Bianca l’ha vinta lui. Unico e indiscusso vincitore, secondo la regola non scritta, ma ben piantata nel suo sistema nervoso, che la conta si dovesse fermare non appena lui fosse stato vantaggio nel testa a testa con il vecchio “zio” Tom Joe, come Trump chiama familiarmente Biden per la sua consonanza agli afroamericani, in onore della scrittrice (da lui mai letta) Harriet Beecher Stowe. Una regola che è più una fregola è stato il rimprovero dei suoi più attenti critici, osservandone lo stato di eccitazione (tipico nella fase di accoppiamento) nel tentare di spiegare alle 2 di notte davanti alle telecamere la validità della regola medesima. La nazione americana si è così divisa ulteriormente all’interno della naturale e democratica divisione elettorale. Ma, mentre ai fans di Trump non sembrava vero di poter sostenere con gridolini e coretti dia stadio l’eccitato presidente forse in preda all’Lsd, l’altra parte dell’America cominciava a domandarsi inquieta e angosciata chi fosse in quel momento il garante della Costituzione scritta dai Padri fondatori, da quei coloni che in nome della democrazia non avevano esitato a prendere le armi per difendere la propria libertà. Ma al combattivo Trump pare che la parola abbia un senso soltanto se va nella sua direzione: la libertà di poter fare quello che vuole. Esattamente come nel pensiero di un certo signore con buffi baffetti, che negli anni Trenta del Novecento decise che le elezioni erano una perdita di tempo. Tempo più utile da dedicare agli oppositori politici, zingari, e soprattutto ebrei, da spedire in campi di concentramento. Quell’uomo era un tedesco. Le stesse ascendenze di Donald Trump. Pura coincidenza, sia chiaro, anche se il fastidio verso la democrazia non pare così distante dall’originale.

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