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Dal Pcd’I al Pci: Togliatti e il partito nuovo

di Stefano Marengo|


21 gennaio 1921: a Livorno, al termine del Congresso socialista, si produce una scissione interna: su impulso della frazione comunista, che ha tra i suoi leader Antonio Gramsci, nasce il Partito comunista d’Italia. A un secolo da quegli avvenimenti, ripercorriamo le vicende di un partito che ha attraversato da protagonista il Novecento. In questa seconda puntata, con un salto temporale di oltre vent’anni, si è catapultati nel penultimo anno della Seconda guerra mondiale. L’Italia è semidistrutta e divisa in due, con il centro nord sotto il tallone nazifascista. In questo scenario arriva il capo riconosciuto dei comunisti italiani, Palmiro Togliatti, figura di rilievo internazionale, conosciuto come il “compagno Ercoli” e destinato nella liturgia di partito ad essere per tutti “il Migliore”.

Nella primavera del 1944, al suo rientro in Italia dopo diciotto anni di esilio in Unione Sovietica, Palmiro Togliatti aveva due priorità. La prima, a cui rispose con la “svolta di Salerno” e l’ingresso dei comunisti nella compagine di governo, era la prosecuzione della lotta partigiana nell’unità di intenti del mondo antifascista; la seconda era la riorganizzazione di un partito, il PCI, che per l’intera durata del ventennio fascista era stato costretto ad operare in clandestinità. In questo caso, per Togliatti, non si trattava semplicemente di riprendere le fila di una storia interrotta. La dittatura e la guerra avevano prodotto dei cambiamenti profondi, strutturali, nella realtà sociale e politica italiana. Il partito andava ripensato di conseguenza. Togliatti comprese l’esigenza di superare la concezione leninista del partito-avanguardia, ossia di un partito composto da pochi rivoluzionari di professione con il compito di guidare il proletariato verso la presa rivoluzionaria del potere. Il modello che andava adottato era quello del partito di massa, un’organizzazione attraverso la quale le classi lavoratrici potessero diventare protagoniste attive della realtà politica nazionale. Ad imporre la svolta era anche l’esponenziale aumento del numero di adesioni che il PCI aveva conosciuto durante la Resistenza: se, prima della lotta partigiana, gli iscritti erano ancora poche migliaia, già nel 1945 superavano il milione e mezzo, e un anno più tardi sarebbero arrivati a sfiorare i due milioni e mezzo. Nel passaggio dal partito-avanguardia al partito di massa la posta in gioco non fu soltanto organizzativa, ma strategica. Il disegno togliattiano rispondeva all’esigenza di dotare i comunisti di uno strumento d’azione nello scenario, che già nel 1944 si andava prefigurando, della costruzione di una repubblica democratica. L’opzione rivoluzionaria, se intesa come presa del potere per via extralegale, non era più all’ordine del giorno. Finita la guerra, per Togliatti, l’obiettivo sarebbe stato quello di «creare in Italia un regime democratico e progressivo che in un discorso provvide ad esplicitare: Convocata domani un’Assemblea nazionale costituente, proporremo al popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi avidi ed egoisti della plutocrazia, cioè dal grande capitalismo monopolistico. Questo vuol dire che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza e sul dominio di un solo partito. Con tutto ciò, Togliatti non intendeva semplicemente adeguarsi a una situazione oggettiva né, tanto meno, pensava di rinunciare alla realizzazione del socialismo. La sua convinzione, al contrario, era che il socialismo in Italia potesse essere realizzato soltanto in un contesto di democrazia, libertà e pluralismo. In questo sta appunto la svolta del partito nuovo, svolta che, per molti versi, porta a piena maturazione intuizioni che furono già del Gramsci teorico dell’egemonia. La “via italiana al socialismo” doveva passare per una profonda rivoluzione democratica. La democrazia progressiva immaginata da Togliatti era infatti un progetto di ampio respiro, un’idea o un ideale che guardava al futuro. A recarne traccia, nei suoi aspetti fondamentali, è la stessa Costituzione repubblicana. Fu infatti soprattutto per iniziativa del PCI, poi ampiamente condivisa dagli altri principali partiti, che la Carta non si limitò a fotografare la realtà esistente e a definire l’architettura istituzionale repubblicana, ma pose degli obiettivi strategici che sarebbe stato compito della Repubblica realizzare nell’avvenire. Un esempio è l’articolo 3, dove l’uguaglianza dei cittadini non è riconosciuta soltanto nel suo senso giuridico formale, ma si attribuisce allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono di fatto il pieno esercizio della libertà e lo sviluppo della personalità. È appunto in questo contesto di sviluppo progressivo che il partito nuovo fu concepito da Togliatti come lo strumento che, attraverso l’interpretazione dei bisogni della società, l’organizzazione del consenso e l’elaborazione di proposta politica, avrebbe dovuto condurre l’Italia verso la piena attuazione dei diritti sociali, politici e civili. (2/Continua)

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