Osservando i nostri tempi
- Domenico Cravero
- 1 giorno fa
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Quando la massa diventa comunità e si sente popolo
di Domenico Cravero

Il pensatore francese Bernard Stiegler nelle sue ricerche ha mostrato come l’esposizione costante alle tecnologie porti alla “dis-individuazione”, cioè alla “dis-integrazione” dei singoli e dei gruppi. La velocità delle informazioni e l’intensità degli stimoli catturano l’attenzione sul presente e sull’individuo, restringendo il legame con predecessori e contemporanei, ma anche le connessioni tra le generazioni. I dispositivi tecnici hanno il potere di modificare il nostro rapporto con la realtà, sconvolgendo gli habitus tradizionali. Si riesce sempre meno a elaborare significati condivisi. La convergenza tra fisico e digitale (la phygital experience, considerata strategica nell'evoluzione dei nuovi modelli di business) porta a scambiare e manipolare i significati della vita quotidiana, riducendoli all’irrilevanza della virtualità.
D’altra parte, la possibilità di moltiplicare le esperienze ne riduce la profondità. Alcune proprietà della soggettività possono in questo modo essere inglobate dal dispositivo tecnico, capace di condizionare e dirigere i comportamenti individuali. Così, mentre difende e ribadisce ogni giorno la sua libera determinazione, l’individuo “sovrano” segue spasmodicamente i comportamenti di tutti: consumare, sfruttare le occasioni, inseguire la performance degli stimoli sensoriali. La sua autonomia diventa eteronomia, la sua autenticità mero adattamento. Il problema è che non può esserci autonomia individuale senza legami, né creazione di senso che non s’inscriva nel quadro di una creazione collettiva di significati.
Di se stessi, infatti, si muore. L’Io si riduce a vivere per puri automatismi, senza cura di sé e del futuro, al punto da produrre quella che ancora Stiegler definisce “epoca senza epoca”.
Il narcisismo dell’Io e l’arroccamento nella difesa dei privilegi producono paradossalmente l’assolutizzazione del Noi: una comunità della paura con le sue derive etnocentriche e l’ostilità verso il diverso e lo straniero. Il “noi” può diventare un “pronome pericoloso” (Richard Sennett) per il suo carattere rigido e difeso, per il rischio dell’ossessione identitaria nel comunitarismo etnocentrico.
La società della sensazione genera individui evanescenti e vulnerabili. Senza legami non esistono significati, ma solo opinioni singolari e indiscutibili. In un tempo segnato dalla frammentazione delle relazioni, dal continuo confronto e dalla competizione, i rapporti umani non riusciti producono intense delusioni e profonde sofferenze, e chiudono nell'individualismo. L’effervescenza sociale ritualizzata dello spettacolo della “merce emozionale” trasmette la sensazione di un benessere fittizio. Si pongono, così, le premesse della disillusione che potrà anche degenerare in violenza, come avviene negli stadi, nelle discoteche, nel bullismo delle scuole e delle piazze.
Il teppismo e la violenza negli stadi, l'etnocentrismo sconsiderato delle tifoserie organizzate, la corruzione sportiva dilagante, sono altrettante prove che la festa sportiva non ha più una funzione catartica e, anziché prevenire, genera essa stessa violenza e distruzione. Anche i riti religiosi e civili tuttavia possono degenerare e produrre noia quando perdono l’elemento della differenza, quando cioè non si alternano alla ferialità e non generano speranza. Si perdono i legami intergenerazionali. I luoghi della festa si separano e si differenziano: i concerti, lo stadio, la discoteca, il pub (le bocciofile, le ludoteche, i locali alla moda…). In una società dove i legami sono incerti e l’infedeltà nell’amore crea dolore e smarrimento, si ricercano i rapporti fusionali immediati.
Ci sono però momenti in cui una massa di persona si sente comunità, diventa popolo, come in certe manifestazioni civili, in certi eventi religiosi, in certe feste popolari. In queste occasioni, i ruoli simbolici che attivano la partecipazione emergono direttamente, senza mediazioni; le parole sono percepite come rivolte alla propria persona; le metafore e i simboli sono veri e immediati. Avviene una trasformazione prodigiosa, come per magia. Il gruppo si cambia in intimità, la folla in “massa di festa”, l’aggregazione in comunità. Gli spettatori non si limitano a guardare ma partecipano, acclamano, cantano, gridano, piangono...
Le performance non si fermano a simbolizzare una relazione e ad auspicare un cambiamento ma lo attualizzano, hanno una presa diretta senza intermediari. Si crea la communitas: il popolo radunato nella e dalla ritualità (civile o religiosa) sperimenta una condizione vitale dove ognuno prende esempio e diventa esempio per gli altri, costituisce uno stimolo o un freno. Si genera così un’effervescenza creativa e insieme ordinata. L’attitudine a condividere l'esperienza emotiva aiuta a raggiungere un’esperienza profonda di intimità. La mente dei singoli lavora in comunicazione con altre menti, regolando reciprocamente gli stati mentali e le sensazioni corporee, fino a fonderle nella communitas. Si genera un flusso ad alto contenuto emozionale, che Serge Moscovici chiamava “effervescenza”. Questo movimento ottimista favorisce il massimo di apprendimento e di generatività forte più della desertificazione delle relazioni umane che avanza e dell’egemonia del mercato.













































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