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Ma quanto ci costa e ci costerà il Coronavirus?

di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi |

Quanto costerà affrontare la pandemia, è un problema che dovrà essere affrontato sotto più profili, non solo in termini di caduta del PIL, ma di modifiche negli assetti organizzativi della nostra società. In questo contesto definire quanto oggi la sanità spende per contrastare il Coronavirus sembra quasi un aspetto marginale, se non fosse per la necessità impellente di garantire risorse al sistema per contrastare la virulenza del morbo. Le mosse del ragionamento dovrebbero prendere avvio dal definire la tipologia di risorse necessarie per contrastare il fenomeno, ma l’indeterminatezza della situazione non ha però ancora definito i parametri di riferimento: il numero di test diagnostici che risulterebbe necessario eseguire e su quali coorti, le modalità delle misure preventive, il mix di farmaci maggiormente efficace. Quando la paura precede l’esigenza economica

In termini economici non si conosce ancora la domanda potenziale che s’intende soddisfare, e ciò a causa delle imprevedibili oscillazioni dei rilievi epidemiologici: l’unica possibilità per rilevare i costi sanitari è quella di sommare algebricamente quanto si sta materialmente spendendo. La tumultuosità con cui sono partite le attività anti-Covid19 evidenzia costi molto differenti sia per le politiche delle aziende produttrici (che possono aver approfittato della situazione) sia per i meccanismi di acquisto, dettati più dalla paura di rimanere “scoperti” che in base a ragionamenti economici. A gestire il nuovo mercato non sono solo i tradizionali player (le multinazionali del farmaco) in quanto per quantità e indeterminatezza del fabbisogno di D.P.I. (Dispositivi di Protezione Individuale) si sono prepotentemente affacciati sulla scena Paesi, dalla Cina all’India e a Cuba, che con i loro volumi di produzione hanno ridisegnato la mappa dei commerci del materiale sanitario. La necessità di grandi quantitativi, senza poter procedere a processi di selezione appurati, ha ulteriormente accresciuto la variabilità dei costi, a fronte dello stesso prodotto/prestazione. In alcuni fasi non si riusciva neanche a capire chi doveva effettuare gli acquisti o più esattamente, se chi era deputato all’uopo non vi provvedeva (centrali d’acquisto), non era immediato chi dovesse subentrare. Rilevando i consumi di farmaci per singolo paziente, la variabilità riguarda sia i farmaci somministrati (i mix di antivirali in associazione con altri farmaci sono molteplici), sia i costi a questi collegati (dalle poche decine di dollari/euro a più di 2000 dollari per fiala). Il problema nella comparazione dei costi perde quindi di significato se non si riesce a determinare un rapporto con i benefici. L’incidenza della pandemia sulla produttività ospedaliera

Analogo discorso si riscontra per i D.P.I, le cui quantità consumate sia all’interno degli ospedali che negli altri presidi registra oscillazioni significative. Ancora più indeterminata è la definizione dei “maggiori tempi” necessari per affrontare i pazienti NO Covid. Se si analizzano, ad esempio, i tempi necessari per effettuare le diagnosi radiologiche si rileva come, la semplice, ma più che giustificata, apprensione degli operatori ha nettamente diminuito la produttività: sarà verificabile il maggior tempo impegnato quando si sono andati ad adottare i protocolli collegati alle patologie infettive, ma nei primi mesi la variabilità tra una struttura e l’altra risulterà condizionata anche da componenti emotive. Ancor più significativa è la riduzione di produzione causa gli accorgimenti che si sono dovuti predisporre per ricoverare pazienti Covid-19 o presunti tali. L’analisi parte dal confrontare periodi sovrapponibili, non solo per strutture, ma per singole unità operative. I parametri per valutare le differenze non si devono fermare ai valori monetari, ma considerare anche i giorni di degenza e le attività collegate ai singoli ricoveri, comprese i supporti socio-assistenziali resesi quanto mai necessari per garantire un minimo di collegamento tra i pazienti e i loro familiari (che facendo mancare il loro supporto, hanno contribuito ad aumentare i costi). Prospettive: dai costi alla programmazione

La difficoltà del problema obbligherà la predisposizione di apposite banche dati che si serviranno dell’esperienza. Nell’attesa, le spese già sostenute ammontano, in tutti i Paesi, a miliardi di dollari/euro e per ora senza un esplicitante rapporto “risorse impiegate/benefici ottenuti”. Superare tale gap è indispensabile per due ordini di motivi: il primo mira ad acquisire conoscenze sullo sviluppo della patologia di carattere epidemiologico/organizzativo che può rappresentare un supporto per contrastare il virus in modo efficace. Dall’impreparazione con cui si sono classificati i primi ricoveri (ricorrendo ai drg pneumologici), il Ministero ha provveduto a emanare apposite linee guida (prot. N. 7648 del 20/03/20202, recepite dalla Regione Piemonte con prot. N. 10042 del 24/03/2020) permettendo così una lettura maggiormente uniforme del fenomeno. Il secondo motivo concerne la corretta remunerazione delle strutture impiegate, direttamente o indirettamente, nella cura dei pazienti. L’obiettivo è quanto di più dichiarato: impedire che forme di opportunismo ne approfittino per lucrare in maniera illecita, facendo perno sull’isteria che inevitabilmente accompagna le situazioni di emergenza. Se un gruppo mediamente organizzato insiste per un determinato consumo sanitario, diventa quasi impossibile opporre una resistenza, anche se la sua utilità marginale rischia di rilevarsi scarsa. Succede così in tutte le realtà, ma ovviamente i paesi politicamente fragili o in procinto di una tornata elettorale, sono più condizionabili. Un problema in più: come si valuta la disorganizzazione

Oltre ai costi diretti per curare i pazienti affetti da Coronavirus, il sistema, durante la prima fase di emergenza, ha dovuto affrontare una serie di costi derivanti dall’adeguamento delle strutture, per ricoverare le possibili ondate di pazienti. Esaminando le situazioni realizzatesi nei vari ospedali, i maggiori costi (o più correttamente i mancati ricavi) sono da imputarsi al blocco/rallentamento delle strutture operative seguiti dalle necessità di attivare una serie di misure di carattere preventivo, oltre ovviamente alla cura dei pazienti infetti. Contabilmente risultano di facile identificazione i costi dei prelievi e dei test, dei tamponi, dei D.P.I, in quanto, una volta individuata l’attinenza e la pertinenza dei consumi con il Coronavirus, si può stabilire un costo standard o semplicemente un costo medio del materiale acquisto, in base alle condizioni di mercato (ben distante dalle condizioni di “concorrenza perfetta”). Più complessa, e condizionata della specificità delle condizioni, è invece la valutazione del costo della disorganizzazione causato dal dover gestire una situazione imprevedibile e ad alto rischio infettivo. In prima approssimazione, tali costi sono ricavabili dal diverso fatturato ottenuto da una struttura negli anni precedenti, con quella realizzata nel periodo di coronavirus. Tale ipotesi penalizza chi, nel frattempo, ha effettuato investimenti che avrebbero potuto accrescere le potenzialità erogative e avvantaggia chi, nel periodo, ha ridotto le strutture o non ha effettuato manutenzioni, diminuendo così i costi fissi. Un primo driver per risolvere la diacronia è quello di verificare la disponibilità dei posti letti richiesti periodicamente per monitorare la situazione. A questo si possono aggiungere i costi per gli investimenti effettuati nel periodo pre-covid e che, causa lo scoppio della pandemia, non si sono potuti utilizzare come preventivato. In un contesto d’indeterminatezza, si tratta di evitare l’espulsione dal mercato di attività qualificate, andate solo momentaneamente in crisi. Problema superabile nelle aziende pubbliche (semplicemente aumentando i loro deficit): dalle conseguenze più pericolose per le attività private. Tra Ragioneria e visione del futuro

In presenza di un’epidemia non si può lasciare senza copertura sanitaria una parte della popolazione o non assicurare la costante preparazione di professionisti indispensabili per garantire continuità alla filiera produttiva/erogativa, che il Covid19, potrebbe interrompere. Tra i costi, occorrerebbe considerare anche gli sforzi compiuti per far “sopravvivere” filiere produttrici che, all’occorrenza, si possono riconvertire in breve tempo, nel produrre i beni occorrenti (concetto più evoluto del predisporre magazzini da dove la merce di valore facilmente commerciabile è destinata a “sparire” nel tempo o a deteriorarsi). L‘esempio delle mascherine è solo il più eclatante (più che immagazzinarle occorre predisporre potenzialità produttive da avviare in caso di bisogno, nonché sul come smaltirle senza inquinare): più in generale, occorrerà interrogarsi su cosa è “indispensabile” per affrontare le emergenze e garantirne la disponibilità, a prescindere dal contingente ed indipendentemente dai costi da sostenere. Purtroppo le necessità, imposte dalla virulenza del Coronavirus (dove, dopo anni di austerity si è potuto tornare spendere di tutto e di più), rischia di lasciare spazio all’inefficiente o, peggio ancora, generare una serie di “appetiti” riflettenti spesso interessi particolareggiati, obbligando poi ad azioni di brutale contenimento, come si è più volte paventato in precedenti articoli. La spesa per il Covid-19 sta infatti portando ad inefficienze, disfunzioni e assunzioni off controll, giustificabili (forse) nei periodi di massima emergenza, meno nei periodi successivi. La generazione di costi fuori controllo sarà supportata inizialmente con nuovi finanziamenti ma non potrà essere prolungata sine die senza che venga accompagnata da azioni volte a migliorare la funzionalità della società nel suo complesso. Più che impegnarsi in un conteggio ragionieristico dei costi sostenuti, sarebbe opportuno concentrare l’attenzione sul rapporto “risorse impiegate/benefici ottenuti” dove le scienze cliniche ed economiche possono contribuire ad individuare le soluzioni a maggior efficacia, permettendo di migliorare l’organizzazione che sovrintende l’erogazione delle cure.

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