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Reducismo dei Cinquestelle in attesa che arrivi Godot…

Aggiornamento: 2 lug 2022

di Francesca Frediani |



La scissione messa in atto da Luigi Di Maio giunge al termine di un periodo particolarmente travagliato, che un osservatore esterno e poco attento potrebbe ridurre allo scontro tra l’anima governista, guidata dal ministro degli Esteri, e quella più legata alle origini, che si individua, a torto o a ragione, nella fazione di Giuseppe Conte. Le ragioni meno nobili della scissione

Ma chi ha seguito l’evoluzione del MoVimento fin dalla nascita sa perfettamente che il quadro è molto più complesso e le ragioni della scissione sono probabilmente meno nobili di quanto si voglia far apparire. Insomma: il richiamo al senso di responsabilità in un momento particolarmente difficile per il Paese e, più in generale, per l’Europa, potrebbe essere soltanto un alibi per coprire le vere ragioni di questa decisione. D’altra parte, l’attaccamento ai principi originari non è probabilmente il collante che tiene uniti coloro che sono rimasti sotto l’ala di Conte, mentre sembra essere la motivazione che ha spinto molti a lasciare definitivamente il MoVimento nel corso degli anni. Quando pensiamo alle origini del M5S ricordiamo i primi meetup, quelli raccontati con nostalgia dagli attivisti storici, persone perlopiù provenienti da movimenti e associazioni attive sul territorio in campo ambientalista o sociale. Persone che pensavano di aver finalmente trovato una casa politica e credevano nel modello di democrazia diretta disegnato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, fondatori e anime del MoVimento. L’ingresso “letale” nelle “segrete stanze”

Una vera e propria comunità, formata da cittadini che si sentivano parte di un progetto rivoluzionario, di forte impatto e senza precedenti nella storia del nostro Paese. Ma la crescita del MoVimento e il suo ingresso in quelle che i suoi stessi attivisti definivano “le segrete stanze” hanno segnato l’inizio di un progressivo e rapido processo di scollamento tra i vertici e la base. Un divario che si è allargato sempre più, alimentato dalla convinzione più volte esposta da chi era arrivato ai vertici delle istituzioni, che il semplice attivista e l’eletto in opposizione non potessero comprendere la difficoltà di governare e l’ineluttabilità del dover scendere a compromessi pur di ottenere qualche risultato e che fossero pertanto incapaci di prendere decisioni equilibrate: una convinzione in netto contrasto con qualsiasi principio di democrazia diretta. Ma lo scopo del MoVimento non era certo quello di ottenere “qualche risultato”, pagando in cambio l’altissimo prezzo di perdere la propria identità. L’idea era quella di portare nelle istituzioni un nuovo modo di fare politica e dimostrare che chiunque possa occuparsi della cosa pubblica, sostenuto dalla rete degli attivisti e dalla partecipazione dei vari gruppi locali. “Uno non vale più uno…”

L’epitaffio di questo sogno, sicuramente un po’ folle e un po’ visionario come le personalità dei due fondatori, è stato scritto proprio da Di Maio la settimana scorsa e si è concretizzato nell’affermazione “uno non vale l’altro”, scandita dall’ex capo politico durante la conferenza stampa di addio al M5S, che ha colto l’occasione anche per puntare il dito contro il cosiddetto “populismo”, nemico diretto di quel senso di responsabilità che in questo difficile momento storico imporrebbe il pieno sostegno al governo Draghi. Queste affermazioni hanno cancellato con un impietoso colpo di spugna uno dei principi del MoVimento, quello che definiva che “Uno vale uno”, cui ha fatto espresso riferimento anche Mauro Nebiolo Vietti nel suo articolo (https://www.laportadivetro.org/wp-content/uploads/2022/06/model_mnv-1.pdf) un assunto direttamente collegato alla regola che pone a due il limite dei mandati, nella convinzione che un eletto debba avere alle spalle persone pronte a sostituirlo quando lui tornerà alla sua vita “normale”, da semplice attivista. L’idea di fare politica per tutta la vita, invece, non è più un tabù per i componenti di “Insieme per il Futuro”. Se da una parte assistiamo alla nascita del partito di Di Maio e dei suoi fedelissimi, con un posizionamento centrista e moderato che incarna proprio quel tipo di politica contro la quale il M5S ha sempre lottato, dall’altra regna la confusione e siamo certi che le defezioni non finiranno qui, soprattutto dopo le ultime dichiarazioni di Beppe Grillo in merito al mantenimento del secondo mandato. Sopravvive il simbolo, non l’ideale

Non sappiamo quale sarà il futuro del MoVimento, dato ormai per finito dai media e dagli avversari politici (ma questa non è una novità), ma una certezza l’abbiamo: quella forza dirompente nata nelle piazze per cambiare profondamente le istituzioni non esiste più, fagocitata dal sistema e perfino incapace di rendersi conto della situazione reale. Le cinque stelle sopravvivono solo nel simbolo, ma da tempo non sono più il faro dell’attività politica del M5S. Riteniamo altrettanto interessante, però, volgere l’attenzione verso quello che in questi anni è successo al di fuori del MoVimento, dove si è creato un ambiente animato da ex attivisti delusi al punto di non voler più spendere un minuto della loro vita in un nuovo progetto, ma anche da cittadini convinti che sia impensabile tornare a chiudersi nelle proprie case dopo tanti anni di impegno e si guardano intorno spaesati in cerca di un minimo segnale di speranza. Accanto ad essi, un gruppo piuttosto consistente ma disperso di eletti a vari livelli, espulsi o fuoriusciti in dissenso con la nuova linea politica del partito. Chi incarnerà il MoVimento delle origini?

Molti aspettano che il segnale arrivi da uno degli esponenti di maggior spicco del MoVimento delle origini, quel Di Battista che ancora oggi in ogni suo intervento esprime lo spirito del primo M5S, oltre a posizioni pacifiste che trovano invece pochissimo spazio nell’attuale arco costituzionale. Ma il segnale, al momento, non arriva e all’orizzonte non si intravede alcuna possibilità di nascita di un nuovo contenitore capace di ricomporre tutti questi frammenti. Intanto il rischio che l’alternativa per i cittadini diventi l’astensionismo è sempre più reale e questo potrebbe essere il più triste effetto collaterale, oltre che l’aspetto più paradossale, della fine di un movimento nato per promuovere la partecipazione attiva.


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