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Giancarlo Rapetti

Partiti e legge elettorale: equazione ancora irrisolta

di Giancarlo Rapetti


Abbiamo visto, in precedenti articoli sul tema, come tra i tre soggetti istituzionali presi in considerazione dal progetto di riforma costituzionale noto come premierato o “madre di tutte le riforme”, il soggetto più debole e da rafforzare sia in realtà il Parlamento.[1] Che il Parlamento sia debole è evidente, e sotto gli occhi di tutti. E sono altrettanto evidenti le cause della debolezza: la scarsa qualità del personale politico, la tendenza a subire gli ordini dei capi, l’inconsistenza dei partiti come “libere associazioni di cittadini per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, l’uso smodato dei Decreti-legge e dei voti di fiducia. Alcuni aspetti sono profondi e non correggibili con interventi legislativi o di ingegneria istituzionale: la disaffezione verso la politica, che pure è la più alta forma di servizio civile, senza la quale non può esistere la democrazia, è un dato crescente. E se i “migliori” si tengono lontani dalla politica, saranno i “peggiori” a riempire il vuoto.


Politica: tra studio e ricerca del consenso

La disaffezione verso la politica, che è un dato di tutte le democrazie, ha molte cause. Tra queste non c’è la cattiva qualità della politica, che è un effetto della disaffezione, e non una causa. Il fatto è che la politica è faticosa, e assorbe completamente chi la pratica operativamente: da un lato richiede spirito di servizio, per studiare i problemi e cercarne una soluzione, dall’altro necessita di uno sforzo sistematico per la ricerca del consenso. Pochi hanno l’intelligenza e l’energia per sostenere entrambi gli impegni e molti si dedicano solo al secondo.

Oltre che faticosa, la politica è anche difficile: tra le cose sbagliate dette a suo tempo da Lenin, una brilla: “renderemo l’amministrazione dello Stato così semplice che anche la massaia potrà capirla”. Al contrario, l’amministrazione dello Stato nel tempo è diventata sempre più complessa, e la complessità cresce di pari passo con lo sviluppo della società, dell’economia, della scienza e delle tecnologie. Come il giudice è “il perito dei periti”, così il politico è “il tecnico dei tecnici”. Si è creata quindi una distorsione: scalare questa montagna impervia è difficile, e allora molti rinunciano. Chi non rinuncia, si preoccupa solo del consenso e non gli importa di governare i problemi; in questo aiutato dall’atteggiamento del pubblico a cui si rivolge, che, a sua volta, evita la fatica di riflettere e di capire, e si affeziona allo slogan indovinato (o al favore ricevuto). Senza voler forzare il paragone, ci sono assonanze con la denatalità: avere figli implica sacrifici e difficoltà di varia natura, e allora si rinuncia, dedicandosi ad altre soddisfazioni della vita, di gran lunga meno intense e appaganti, ma più facili da raggiungere.

Superare questo tipo di crisi della politica non è per niente facile e solo un profondo sussulto delle società democratiche, una vera rivoluzione culturale potrà produrre rimedi duraturi. Sussulto necessario, perché di questo male oscuro la democrazia può morire: “la libertà non è uno spazio libero, la libertà è partecipazione”, cantava Gaber già molti anni fa.


Ridiamo vitalità all'art. 49 della Costituzione

Possiamo però affrontare, più modestamente, due aspetti “tecnici”, non risolutivi, ma utili: la questione dei partiti, e la legge elettorale. Come già accennato, l’art. 49 della Costituzione recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Norma programmatica, che nessuno si è mai preoccupato di concretizzare, stabilendo per legge che cosa si intenda per “associarsi liberamente” e “concorrere con metodo democratico”. Il risultato è che abbiamo visto qualunque cosa: partiti padronali, partiti personali, partiti liquidi. I partiti hanno perso credibilità (e iscritti), i loro Statuti sono spesso à la carte, i congressi delle finzioni, le cosiddette primarie delle farse. Naturalmente non sempre, ma la percezione è quella, e spesso anche la realtà.

E’ curioso che in una cultura giuridica come quella italiana (e anche europea) che tende a normare qualunque cosa, ci si sia dimenticati totalmente dell’argomento. Errore tragico, perché senza i partiti non c’è democrazia. Norberto Bobbio diceva “i partiti sono più che utili, sono necessari”. Sono il luogo del confronto e della prima selezione del personale politico. Oggi, che la politica è faticosa e non tutti se la sentono di impegnarsi, sono ancora più importanti, per evitare che la politica stessa diventi appannaggio di bande personali. E non ci si deve preoccupare che siano troppi: l’alternativa ai troppi partiti è il partito unico, quello di Stalin, Hitler e Mussolini, di Franco e di Salazar, per rimanere nella storia europea.

Perché serve una legge applicativa dell’art. 49? Perché i partiti devono funzionare secondo regole certe e coerenti con il dettato costituzionale. Al momento esistono norme per quanto riguarda il finanziamento e le questioni collegate, ma che lasciano in un limbo la definizione della struttura dei partiti. Ci deve essere uno statuto tipo, che regoli il funzionamento interno: i congressi, le modalità di elezione degli organi dirigenti, il tesseramento, il pagamento delle quote associative. Ci deve essere un organo terzo di controllo del rispetto delle norme interne. Deve essere stabilito quali sono gli organi che, in relazione alle diverse elezioni, sono competenti a deliberare le candidature. Varrebbe la pena di prendere in considerazione il passaggio da “associazioni non riconosciute” a soggetti con personalità giuridica: sarebbe il partito e non il capo del momento ad essere titolare di nome, simbolo, patrimonio, evitando vicende grottesche e contenziosi indefinibili a cui ogni tanto si assiste. Non è semplice normare tutto ciò, ma il fatto che non sia semplice è la prova del fatto che è necessario. Stabilito come devono funzionare i partiti, si può passare all’esame della legge elettorale.


Regole certe per gli elettori

La premessa è che eleggere significa scegliere, ed esattamente scegliere chi mi dovrà rappresentare: le elezioni servono ad esprimere la rappresentanza. E la rappresentanza, per definizione, è plurale: per progetto politico e per territorio. Dal primo aspetto discende che l’attribuzione dei seggi non può essere maggioritario, ma deve essere proporzionale; dal secondo che i collegi non devono essere troppo ampi e devono essere omogenei. La traduzione pratica si realizza con il proporzionale di collegio e il divieto di candidature plurime.

Se devo scegliere, devo sapere, prima del voto, quali sono i candidati tra cui scegliere. Se ci si può candidare in più collegi, entrano in gioco le opzioni o le sostituzioni, quindi l’elettore non ha la certezza delle candidature. L’attribuzione dei seggi deve avvenire all’interno del collegio (e non, come ora accade, a livello nazionale). Con la candidatura esclusiva e l’attribuzione dei seggi all’interno del collegio, concluso lo scrutinio si sa chi sono gli eletti.

Prima di proseguire, diciamo perché sono da escludere le alternative di cui spesso si parla: il collegio uninominale secco a turno unico (che vige nel Regno Unito) e il ballottaggio al secondo turno tra i due più votati al primo. Niente da dire sul fatto di presentare un solo candidato per partito: anzi, questa soluzione concentrerebbe ancora di più l’attenzione sulla qualità del candidato. Il problema sta nel deficit di rappresentanza che si verrebbe a creare, con entrambi i sistemi, a elezione avvenuta. Sarebbe infatti eletto, in ogni collegio, il candidato di maggioranza; le altre voci, anche se fortemente rappresentate, sarebbero cancellate. In un esempio paradossale, ma possibile, se i partiti A, B, C e D ottenessero, in tutti i collegi, rispettivamente il 27, 26, 24 e 23 per cento, il partito A avrebbe tutti i seggi alla Camera e tutti gli altri non sarebbero rappresentati. Ma anche a livello di singolo collegio, come si può affidare la rappresentanza esclusiva a chi ha avuto un consenso minoritario, anche se meno minoritario dei concorrenti? Il ballottaggio risolve il problema solo aritmeticamente: per definizione, se ci sono due soli concorrenti, chi prevale ha la maggioranza assoluta, ma è per l’appunto una mera apparenza aritmetica, certificata anche dal fatto che al secondo turno, nelle elezioni in cui il ballottaggio è previsto, votano meno elettori che al primo turno.

Il ballottaggio ha un senso (fatte le riserve del caso) quando, come nel caso dei sindaci, si deve per forza eleggere una persona titolare di una funzione esecutiva, ma quando parliamo di Parlamento, l’obiettivo è la rappresentanza equilibrata e significativa della società, rappresentanza che è la premessa di tutto il discorso.


Al voto con il metodo D'Hondt

Proseguiamo ora con uno schema sintetico della proposta: si devono eleggere 400 deputati (troppo pochi per garantire rappresentanza territoriale adeguata, ma ormai è un dato di fatto). Possono andare bene 100 collegi, uno per provincia in media, ma bisogna tener conto della popolazione. Le province più grandi hanno più collegi, quelli più piccole vanno accorpate (per esempio Alessandria più Asti, nel caso del Piemonte). Non è detto che così facendo si possa raggiungere l’equilibrio perfetto tra seggi e abitanti (che in media nazionale vorrebbe dire un seggio ogni 150 mila abitanti) e quindi potrebbero essere necessari aggiustamenti, ma è un dettaglio. Poniamo che ogni collegio debba eleggere quattro deputati. Quindi ogni lista concorrente deve avere quattro candidati e i seggi sono assegnati all’interno del collegio col metodo D’Hondt. Non ci sono resti o recuperi in sede nazionale.

Facciamo un esempio: in un determinato collegio si presentano cinque liste, che ottengono rispettivamente: Lista A 100k voti, Lista B 65k voti, Lista C 42k voti, Lista D 27k voti, Lista E 15k voti. Applicando il metodo D’Hondt senza correttivi e utilizzando i soli quozienti interi i seggi sono così assegnati: Lista A = 2, Lista B = 1, Lista C = 1. Gli altri voti non producono eletti. Nell’esempio, per ottenere un seggio nel collegio, una lista deve ottenere almeno il 16% dei voti. Come si vede, la rappresentanza è plurale (tre partiti hanno degli eletti), ma non c’è rischio di elevata frammentazione, perché con pochi seggi in palio la soglia di sbarramento implicita è molto alta. Con questo schema, non c’è alcun bisogno di introdurre una soglia di sbarramento nazionale predeterminata, che, qualunque fosse, sarebbe comunque arbitraria.

Questo schema di sistema elettorale, di cui non si parla mai, è molto semplice. Fin troppo, secondo qualcuno. Si obietta che così si favorisce il radicamento di notabili locali, portatori degli interessi specifici di un territorio, anziché dell’interesse generale della nazione. Può essere vero, ma non c’è soluzione. Attualmente, a giudicare dai commi e dagli emendamenti alle leggi di spesa, gli interessi territoriali pesano moltissimo, ma sono intrecciati con le fedeltà ai capi partito di turno. Se non altro, si migliora la trasparenza. E se si rafforza il ruolo dei partiti, si introduce un correttivo potente, mentre oggi i detentori di pacchetti di voti personali, spendibili in altre elezioni, spadroneggiano.


Tema caldo: le preferenze

Determinato il numero di seggi spettante a ciascuna lista, sono eletti i candidati in ordine di lista, senza preferenze. Obiezione: ma così gli eletti sono scelti dai partiti, non dagli elettori. Obiezione respinta, ma vediamo perché, con l’approfondimento che la questione merita. Gli argomenti contro le preferenze sono molti e di varia natura. Cominciamo da una premessa: le preferenze si esprimerebbero comunque all’interno di una lista di candidati scelti dai partiti, quindi su di una preselezione ristretta. Ma gli argomenti contro le preferenze sono ben altri.

Ci sono motivi di ordine etico-politico: la caccia alle preferenze fa aumentare il costo della politica e genera clientele, con il vagabondare tra i partiti di personaggi che offrono il proprio pacchetto di preferenze in cambio di vantaggi personali. Gioverà anche ricordare che nella Prima Repubblica l’uso di preferenze multiple, in determinati contesti, era un mezzo di controllo del voto; tanto è vero che Mario Segni promosse un referendum per introdurre la preferenza unica: il referendum si tenne nel 1991 e fu vinto.

Poi ci sono i motivi di ordine pratico, non meno rilevanti: in Italia ci sono circa 90.000 sezioni elettorali, che vuol dire circa 450.000 tra presidenti di seggio e scrutatori, di cui nessuno ha curato la preparazione. Per ridurre al minimo gli errori occorre evitare conteggi complessi e “non quadrabili” (se una preferenza non viene conteggiata, non c'è modo di accorgersi dell'errore).

Per evitare anche dubbi, richieste di riconteggio (che poi spesso sono fatti sui verbali e non sulle schede, quindi inutili), contenziosi. Per avere certezza del conteggio esatto delle preferenze, ci vorrebbe il voto elettronico. Ma il voto deve essere personale, libero e segreto. Gli ultimi due requisiti sono legati in modo indissolubile. Se il voto non è segreto, non è libero. Ora non esiste nessun software che garantisca la segretezza assoluta del voto; e se esistesse, non tutti ci crederebbero, con lo stesso effetto negativo sulla libertà del voto. Con le schede cartacee e i conteggi manuali, solo un sistema di voto ultra-semplice e “quadrabile” tutela dagli errori (frequenti) e dai brogli (mai accertati, ma ipoteticamente possibili).

C’è un ulteriore argomento contro le preferenze, che personalmente ritengo risolutivo, ed è questo: contrariamente a quanto comunemente si pensa e si dice, con il sistema a preferenze l’elettore sceglie meno e non più liberamente.


Il sistema a liste bloccate

Mi spiego con un esempio: io elettore ho focalizzato la mia attenzione su due liste, ciascuna con quattro candidati; in una ci sono tre candidati che stimo, e uno che invece ritengo del tutto inadatto; nell’altra quattro candidati che ritengo nella media, senza infamia e senza lode. Quale lista scelgo, in un sistema con preferenze? Non so che cosa fare: infatti non so quale dei candidati della lista che preferirei (la prima), raccoglierà più preferenze; potrebbe essere proprio quello che disistimo; votando la lista potrei aver dato un voto in conflitto con la mia volontà, ma lo scopro solo dopo. Questo potrebbe spingermi a votare la lista mediocre, per essere sicuro di non favorire il “cattivo” candidato: anche in questo caso finisco per dare un voto in conflitto con la mia effettiva volontà.

In un sistema a liste bloccate, invece, l’ordine di lista mi indica chiaramente quali sono i candidati di punta e quelli di rincalzo: nell’esempio di prima, se il candidato “cattivo” è capolista, scelgo un’altra lista; se sta in fondo, posso serenamente votare la lista preferita, essendo poco probabile che il mio voto faccia eleggere il candidato “cattivo”. Comunque sia, posso esprimere un voto coerente con la mia effettiva volontà. In pratica la lista bloccata è l’unico modo per sapere, prima del voto, a chi andrà effettivamente il mio voto; e la conoscenza rende il mio voto veramente libero.

In conclusione, collegi relativamente piccoli, liste corte e bloccate, attribuzione dei seggi secondo il metodo proporzionale collegio per collegio, senza resti o recuperi in sede nazionale.  Un sistema che traduce nella materia elettorale i principi espressi da Adam Smith per la tassazione. In pratica, il sistema elettorale deve essere semplice e chiaro per l’elettore, deve esserlo per chi conta i voti, deve esserlo nel risultato: un Parlamento rappresentativo della società, delle correnti politiche e dei territori. Resta la stella polare enunciata dall’articolo 67 della Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.


*Componente dell'Assemblea Nazionale di Azione


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