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Partiti, marketing e democrazia: la crisi della società italiana

di Ferruccio Marengo


I partiti di massa si sono disgregati. Dalle loro ceneri sono emersi nuovi imprenditori della politica. Guidano partiti-marketing che blandiscono gli elettori con promesse mirabolanti, predicano la fine della differenza tra destra e sinistra e saltano da uno schieramento all’altro per una manciata di voti o qualche posto in più nel sottobosco della politica. Nel frattempo, crescono le disuguaglianze, i ‘senza voce’ sono sempre più inascoltati e la metà degli italiani è ormai convinta che votare sia inutile. Un serio problema per la nostra società e la nostra democrazia.


A proposito degli speculatori Keynes scrive che la loro attività “può essere paragonata a quei concorsi dei giornali, nei quali i concorrenti devono scegliere i sei volti più graziosi fra un centinaio di fotografie, e nei quali vince il premio il concorrente che si è più avvicinato, con la sua scelta, alla medie fra tutte le risposte; cosicché ciascun concorrente deve scegliere, non quei volti che egli ritiene più graziosi, ma quelli che egli ritiene più probabile attirino i gusti degli altri concorrenti, i quali a loro volta affrontano tutti quanti il problema dallo stesso punto di vista. Non si tratta di scegliere quelli che, giudicati oggettivamente, sono realmente i più graziosi, e nemmeno quelli che una genuina opinione media ritenga i più graziosi. Abbiano raggiunto il terzo grado, nel quale la nostra intelligenza è rivolta a indovinare come l’opinione media immagina sia fatta l’opinione media medesima”. Così definita, la speculazione può procurare denaro per coloro che la praticano, ma non genera ricchezza. Ciò nonostante, “gli speculatori possono non causare alcun male, come bolle d’aria in un flusso continuo d’intraprendenza”. La situazione diventa invece seria “quando l’intraprendenza diviene la bolla d’aria in un vortice di speculazione. Quando lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di una casa da gioco, è probabile che vi sia qualcosa che non va bene”[1].

Questi passi di Keynes possono aiutare a comprendere non soltanto le regole che governano la speculazione finanziaria, ma anche quelle, per molti aspetti analoghe, che orientano oggi l’attività dei partiti. So bene che in questo campo ogni generalizzazione rischia di dare una rappresentazione troppo schematizzata e quindi scarsamente utile della realtà. Pur tuttavia, è indubbio che negli ultimi decenni abbiamo assistito a una trasformazione radicale dei modi e dei contenuti dell’attività politica, che ha condotto, tra l’altro, al prevalere di una nuova forma partito – il partito marketing – che ha via via soppiantato i partiti di massa di matrice novecentesca.

Lo scopo prevalente, quando non esclusivo, di questi nuovi partiti è raccogliere i voti sufficienti ad accrescere, o almeno conservare, la presenza dei suoi rappresentanti di vertice all’interno delle istituzioni. In altre parole, di aumentare o conservare la loro capacità di influire sulle scelte di governo, sia in ambito nazionale, sia nei contesti locali. Per ottener questo risultato si rivolgono a un’opinione pubblica indistinta, tentano di coglierne i ‘desideri’, li selezionano in base alla possibilità che questi hanno di interessare ampi e influenti segmenti dell’elettorato e, fatto ciò, definiscono le loro ‘offerte’ sul ‘mercato della politica’ (un’espressione tanto brutta quanto, in questo caso, adeguata). I metodi seguiti sono mutuati dal marketing commerciale, anche per quanto riguarda i modi con i quali l’offerta politica è comunicata e promossa: i ‘messaggi’ devono essere rivolti al maggior numero possibile di potenziali ‘clienti’ e devono essere attraenti, semplici, immediatamente comprensibili, sintetizzati in slogan incisivi e agevolmente utilizzabili nei vecchi e nuovi media. Incertezze e tentazioni di riflessione, discussione e approfondimento sono escluse.

Si coglie, in ciò, una prima analogia tra quanto scritto da Keynes a proposito degli speculatori finanziari e il modo di operare dei partiti marketing. Come i primi, anche i secondi non sono interessati a comprendere quali siano, secondo giudizi oggettivi, gli effettivi bisogni dei potenziali ‘clienti’, ma piuttosto a catturare i ‘desideri’ che questi ultimi percepiscono soggettivamente come più urgenti. La loro preoccupazione è orientata a rilevare come l’opinione pubblica immagina se stessa. Il processo democratico viene così capovolto: i partiti marketing non sono interessati a vincere le elezioni per realizzare un programma politico, ma a elaborare una ‘offerta’, qualunque essa sia, che permetta loro di vincere le elezioni.

I loro gruppi dirigenti e i loro leader diventano così ‘imprenditori politici’, interessati a collocare il loro ‘prodotto’ sul ‘mercato della politica’ soprattutto là dove ci sono segmenti di elettori-consumatori insoddisfatti e disponibili, senza troppo riguardo per i contenuti del prodotto stesso. Così facendo – e qui torniamo ancora una volta a Keynes – acquisiscono voti senza generare valore, senza cioè preoccuparsi di mettere in campo un progetto ragionevolmente realizzabile per la costruzione di una società migliore. Hanno un profilo oggettivamente conservativo.

L’offerta politica dei partiti marketing è però inevitabilmente segnata da due elementi di debolezza: è spesso intrinsecamente contradditoria, poiché unisce e promette di esaudire ‘desideri’ tra loro difficilmente conciliabili; è spesso inattuabile poiché non tiene conto dei vincoli politici, economici e pratici che definiscono lo scenario nel quale dovrebbe essere realizzata. Il primo di questi elementi è perlopiù trascurato o affrontato con l’artificio retorico del ‘ma anche’ secondo il quale, ad esempio, si propone di ridurre il carico fiscale ‘ma anche’ di migliorare e ampliare i servizi pubblici. Il secondo fattore di debolezza – l’inattuabilità dell’offerta – è di solito ignorato e trasferito al poi, quando, nell’impossibilità di realizzare quanto ha promesso, il partito marketing si giustifica puntando il dito contro un ‘nemico potente’, che, di volta in volta, può essere indentificato con l’Europa, i ‘poteri forti’, élite non meglio indicate, i tempi lunghi della politica, le lentezze della burocrazia, la corruzione, ecc.

Si tratta tuttavia di un gioco pericoloso perché, una volta che non sia stato in grado di tener fede alle promesse, il partito marketing può essere preda di altri attori politici, che, collocandosi negli spazi lasciati liberi dal suo fallimento, sono in grado si proporsi come i nuovi, veri e più affidabili interpreti dei desideri insoddisfatti degli elettori-consumatori. E questo può portare a rapide e consistenti ‘migrazioni’ dei consensi elettorali, in ragione delle quali, nel giro di breve tempo, il partito e il suo leader possono acquisire (o perdere) una posizione dominante.

Fintanto che i partiti marketing rappresentano un’area marginale dello scenario politico non sono che “bolle d’aria” incapaci di causare danni rilevanti. La situazione diventa seria quando l’azione politica, in larga parte, “diviene bolla d’aria in un vortice di speculazione”. È quanto abbiamo sperimentato negli ultimi decenni, durante i quali il marketing ha soppiantato la politica, la propaganda ha sostituito l’informazione, lo scontro tra tifoserie ha oscurato la discussione pacata, l’io si è affermato a scapito del noi. E’ ormai evidente che queste trasformazioni, consustanziali al processo di globalizzazione, hanno favorito l’insorgere di patologie sociali quotidiane che vanno dalla chiusura nel privato al declino della fiducia nell’altro e nelle istituzioni, dalla contrazione delle relazioni interpersonali all’abbandono delle forme di partecipazione civica. Per effetto di questi cambiamenti le disuguaglianze sono aumentate, il confronto politico si è polarizzato e, non da ultimo, molta parte dell’elettorato, che si sente ormai privo di una propria rappresentanza politica, è stato spinto nell’area dell’astensionismo elettorale.

I grandi partiti novecenteschi, costruiti per assicurare alle masse popolari strumenti efficaci di partecipazione politica, si erano dotati di strutture permanenti capillarmente diffuse, capaci di accogliere e includere nei processi politici milioni d’iscritti e centinaia di migliaia di militanti. Da esse dipendeva la capacità dei partiti stessi di essere presenti in ogni segmento del tessuto sociale e di affermarsi politicamente ed elettoralmente. Si erano così venute a formate vaste e articolate strutture di partecipazione che se, da un lato, avevano il loro collante in una visione tendenzialmente condivisa della realtà e del mondo ideale che si sarebbe dovuto edificare, rappresentavano, nello stesso tempo, il luogo nel quale questo ideale era costantemente discusso e rielaborato. Queste strutture, veri e propri corpi intermedi collocati tra i cittadini e le istituzioni democratiche, hanno esercitato una potente funzione d’integrazione: erano non soltanto le sedi nelle quali a ciascuno era offerta la possibilità di ‘dire la propria’; erano anche, e soprattutto, i luoghi della costruzione del ‘noi’, i luoghi nei quali i problemi di ciascuno uscivano dalla dimensione della solitudine individuale e assumevano una loro connotazione collettiva, condivisa, e quindi politica. Nello stesso tempo, erano i luoghi nei quali potevano avere voce anche coloro che, per le loro condizioni sociali, di voce ne avevano poca.

Non si tratta qui di discutere le ragioni che hanno portato al crollo di queste strutture intermedie e dei partiti di massa che le avevano generate, ma di prendere atto che da questo crollo ne è uscita una società più frammentata e ingiusta, dominata dalla solitudine perché impoverita nella sua dimensione collettiva, e perciò nella sua dimensione morale e politica. Una società nella quale le persone, i gruppi sociali e i territori ‘marginali’ non hanno voce, perché il calcolo economico è diventato l’unico criterio di scelta. In sintesi, ne è uscita una società che sta generando le basi per la sua disgregazione.

Dovremmo forse pensare a come ricostruire, nelle forme che riterremo più efficaci, quei luoghi di costruzione del ‘noi’ che i partiti di massa ci avevano assicurato.



Note

[1] J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET, 2005, p. 342

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