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Kursk ancora nel destino dei russi, quanto nei nostri?

Aggiornamento: 7 dic 2022

di Menandro


Il 5 luglio del 1943 si combatté a Kursk la più grande battaglia di carri armati della Seconda guerra mondiale e della Storia moderna. Da una parte, i panzer della Wermacht nel disperato tentativo di ribaltare gli esiti oramai fallimentare della campagna di Russia, dall'altra i mezzi corazzati dell'Armata Rossa, uscita vittoria dall'assedio di Stalingrado e decisa più che mai a proseguire l'offensiva che l'avrebbe portata poi nel maggio del 1945 alle porte di Berlino.

Kursk, mezzo milione di abitanti, a circa 600 chilometri a sud dalla capitale Mosca, è la stessa località presa ieri di mira con i droni dalle forze ucraine, che hanno replicato l'assalto di ieri l'altro agli aerodromi di Saratov e Ryazan. Come è stato rilevato, non si è trattato di un obiettivo casuale, perché l'esercito di Kiev ha "neutralizzato alcuni serbatoi di stoccaggio del petrolio e accanendosi su una località che fornisce buona parte del metallo per la costruzione e la messa a punto di blindati e carri armati".

Questo ci porta a credere che non vi sia nulla di simbolico nell'operazione su Kursk, anche se non è da scartare l'ipotesi che il presidente dell'Ucraina Zelensky abbia voluto mortificare il suo corrispettivo Putin, colpendo un'icona della guerra patriottica contro il nazismo, un toponimo mitico che gronda sangue, sudore e lacrime che Mosca, i generali di oggi e di ieri che sembrano schiacciati dal peso delle loro medaglie, e parte delle famiglie russe, custodiscono nella memoria come una reliquia.

Se così fosse, la strategia del presidente Zelensky è pressoché perfetta per alimentare ulteriormente la guerra e proseguire in quella coazione a ripetere che si regge sul trinomio "azione-reazione-controreazione" che fin qui gli ha assicurato il sostegno e le armi dell'Occidente e, soprattutto, per spingere sempre più in avanti gli obiettivi della difesa della libertà anche in nome e per conto dell'Europa, sino a voler riconquistare la Crimea, espropriata nel 2014 dall'aggressore Putin. Desiderio legittimo, tanto più che le guerre si sa quando cominciano ma non quando finiscono e soprattutto rimane ignoto dove. Del resto, anche autorevoli commentatori occidentali hanno espresso le loro riserve sugli obiettivi militari degli ucraini, tra cui si segnale quella l'ammiraglio statunitense James Stavridis, ex comandante supremo delle forze Nato, che in un'intervista a Bloomberg parla di "svolta pericolosa" da parte di Kiev, cui si deve mettere un freno "per ridurre il rischio di un coinvolgimento diretto della Nato".

Il maresciallo Zukov, comandante dell'Armata rossa a Kursk

In effetti, guardando ai dieci giorni, quelli in cui si cannoneggiò a Kursk che segnarono l'inizio della disfatta di Hitler e del nazismo, in palese difficolta dopo El Alamein e Stalingrado, non vorremmo essere trascinati all'inferno per l'intraprendenza del governo ucraino cui è stata dato un bancomat illimitato o quasi per il rifornimento di armi ed equipaggiamento. Preoccupazione altrettanto legittima, perché il Cremlino non è rimasto in silenzio ed assicurato che replicherà con tutte «le misure necessarie per garantire la sicurezza in seguito ai continui attacchi terroristici di Kiev».

A ciò non potrà che seguire, come abbiamo più volte ribadito su questo sito, la reazione dell'una e dell'altra parte in in avvitamento senza fine. O meglio, la fine, almeno in materia di armamenti per l'Ucraina, esiste, come ha rilevato ieri nel suo articolo Michele Corrado[1], perché la Nato non si può spingere oltre. In sostanza, una forma elegante per spiegare che a Kiev, dopo l'imponente armamentario, non rimane che consegnare armi nucleari tattiche, di cui peraltro gli ucraini sono grandi conoscitori ed esperti per il periodo trascorso all'interno dell'Armata Rossa. E' ciò che vuole e in cui spera Zelensky?


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